Al Qaida è ancora una minaccia mortale?
A nove anni dall'undici settembre, Al Qaida resta uno dei misteri più difficili da decifrare
di Elena Favilli
A nove anni dall’undici settembre, Al Qaida resta in buona parte una cosa difficile da definire per la sicurezza americana. La settimana scorsa il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato ufficialmente la fine della guerra in Iraq. In Afghanistan invece le truppe dell’esercito americano resteranno ancora almeno fino al luglio del 2011. Per sconfiggere il regime talebano e per sconfiggere Al Qaida, il nemico che si è fatto via via più sfuggente.
Osama bin Laden sembra diventato un’ombra inafferrabile e nella percezione della maggior parte degli americani, Al Qaida è un nemico dai tratti sempre più confusi e rarefatti. Secondo le ultime stime della CIA, la rete di Al Qaida in Afghanistan è ridotta a poco più di cento militanti, ma la verità è che nessuno sa di preciso quanti siano. La vera guerra contro il gruppo terroristico al momento è combattuta dai droni: gli aerei senza pilota teleguidati dalle basi americane in Nevada e in Virginia con cui Washington cerca di colpire i terroristi in Pakistan, Somalia e Yemen. La guerra invisibile, come la chiamano alcuni.
Questa settimana Newsweek ha dedicato molte pagine al tentativo di ricostruire cosa sia Al Qaida – un gruppo strutturato, un nome che copre realtà indipendenti, una rete con differenti coesioni, una struttura sopravvalutata in numero e forza? – e quale sia stata finora l’efficacia della guerra americana per sconfiggerla. Il direttore dell’edizione internazionale Fareed Zakaria ha scritto un’analisi molto severa su quest’ultimo punto.
Nove anni dopo l’11 settembre, qualcuno dubita ancora che Al Qaida non sia più una minaccia così mortale? Da quel terribile giorno del 2001, una volta che i governi di tutto il mondo hanno attivato serie contromisure, la rete di terrore di Osama bin Laden non è stata capace di effettuare neanche un attacco contro obiettivi importanti negli Stati Uniti e in Europa. Pur avendo ispirato attentati minori compiuti da combattenti locali, non è stata in grado di eseguirne neanche uno in proprio. Oggi, il massimo che Al Qaida riesce a fare è trovare un giovane turbato radicalizzato su internet e insegnargli come imbottirsi le mutande di esplosivo. Non sottovaluto le intenzioni di Al Qaida, che sono barbare. Metto in dubbio le sue capacità. In ogni guerra recente gli Stati Uniti hanno avuto ragione sulle cattive intenzioni dei loro nemici ma ne hanno molto esagerato la forza. Negli anni Ottanta credevamo che l’Unione Sovietica stesse espandendo il suo potere e la sua influenza ed era invece sull’orlo della bancarotta politica ed economica. Negli anni Novanta eravamo certi che Saddam Hussein avesse un arsenale nucleare. Riusciva a malapena a produrre del sapone.
Questa volta l’errore è più pericoloso. L’11 settembre è stato uno shock per la psicologia e il sistema americani. Come risultato, abbiamo reagito eccessivamente. In un importante inchiesta del Washington Post, Dana Priest e William Arkin hanno impiegato due anni a raccogliere informazioni su come l’11 settembre abbia davvero cambiato l’America.
Zakaria cita i risultati di quell’inchiesta sull’esplosione controproducente delle strutture di sicurezza americane. “È una guerra senza fine”, scrive: “quando finisce? Quando dichiariamo chiusa l’emergenza?”. La sua valutazione è complicata dalle difficoltà di comprensione della forza di Al Qaida, di cui finora manca una articolata descrizione dall’interno. Lo stesso Newsweek prova ad arricchire questa descrizione facendosi spiegare le cose da Hanif, un ragazzino afghano di sedici anni che per diciotto mesi è stato addestrato come jihadista in Pakistan.
Hanif era uno studente brillante, bravo in matematica e capace di parlare inglese, arabo, urdu e pashtu. I suoi genitori non hanno mai approvato la sua scelta di diventare un jihadista, ma lui ha deciso così. Ha passato gli ultimi diciotto mesi nelle file di un gruppo di Al Qaida di base in alcune aree tribali del Pakistan e al confine con l’Afghanistan. Il suo racconto è stato confermato, per quanto possibile, da suo zio, un ufficiale telebano che è sempre stata una fonte affidabile per Newsweek in passato. Hanif scomparve nel febbraio 2009 e lo zio si mise in viaggio verso il Waziristan (la regione nel nord ovest del Pakistan, ndr) insieme al padre per cercarlo. Il padre riuscì finalmente a trovarlo durante un secondo viaggio, dopo due mesi di ricerche, ma il ragazzo non volle tornare a casa. Tornò solo dopo altri due mesi, implorato dalla madre.
Oggi Hanif racconta di avere preferito Al Qaida ai talebani per una questione di prestigio. Durante il suo periodo di addestramento ha visto morire molti suoi compagni, ma ha anche visto un flusso costante di nuovi ragazzi provenienti da tutto il Medio Oriente che li andavano a sostituire. Sostiene che l’azione di Al Qaida, anche se condotta da piccoli gruppi, ha un potente effetto moltiplicatore sugli altri gruppi terroristici, che su quella spinta riescono a compiere i loro attacchi con più efficacia. Dice anche di aver avuto un piccolo ruolo nell’attentato dello scorso dicembre contro la base americana Chapman in Afghanistan, dove morirono sette agenti CIA.
Tutto gli sembra una grande avventura, che non tiene minimamente conto della brutalità e della crudeltà dei metodi impiegati: gli omicidi spietati di chi è sospettato di essere una spia, gli attacchi con l’acido sulle donne, il regno di terrore imposto sulle aree sotto il loro controllo. Da quando ha memoria, dice di aver sempre sognato di unirsi alla jihad. Aveva solo sette anni quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan. Vedeva ufficiali e combattenti talebani che venivano a far visita ai membri della sua famiglia e cresceva sentendosi raccontare storie della guerra santa contro i sovietici, del Mullah Omar, del regno dei talebani, dell’invasore americano e della necessità di ripristinare il potere. «Lo scopo della mia vita è sempre stato diventare uno shahid», un martire, «voglio attaccare gli infedeli che insultano le donne musulmane, che occupano la Palestina, l’Iraq e l’Afghanistan. Non c’è nient’altro per cui vale la pena combattere nella vita, se non unirsi alla jihad e diventare uno shahid».
Un giorno dell’anno scorso in un café di Karachi fu avvicinato da un uomo con una folta barba grigia che iniziò a raccontargli storie sulla bellezza della jihad. Hanif ascoltava a bocca aperta. «Gli dissi che mi sarebbe piaciuto farne parte e lui mi disse che avrebbe provato ad aiutarmi». L’uomo infatti lavorava per il leader dei talebani pakistani Baitullah Mehsud – morto in uno degli attacchi missilistici americani dell’anno scorso – ed era noto per reclutare e usare come attentatori suicidi giovani come Hanif. Si pensa che sia stato uno dei suoi terroristi a farsi esplodere nell’attentato in cui morì Benazir Bhutto.
Hanif era al settimo cielo. Era il momento che aveva sempre aspettato, la sua occasione per unirsi alla lotta contro gli infedeli e magari riuscire a diventare un martire. Dopo pochi giorni l’uomo lo contattò di nuovo per dirgli che tutto era pronto. La mattina dopo Hanif uscì da casa ma invece di andare a scuola come ogni giorno salì su un autobus per Bannu, la città che dà accesso alla regione del Waziristan, controllata dagli jihadisti. «Ero felice», racconta «stavo andando dove avevo sempre sognato di andare. Non vedevo l’ora di arrivare».
Durante il viaggio decise di fermarsi in una base di Al Qaida vicino alla città di Datta Kehl, sul confine afgano. Aveva conosciuto altri due ragazzi che si sarebbero fermati lì e chiese di poter restare anche lui. «Erano due arabi», dice «mi avevano colpito molto». Si presentò contando sul fatto che sapeva parlare arabo molto bene, raccontò della sua famiglia, di suo zio. L’uomo responsabile del campo, un militante di Al Qaida di origine libica conosciuto con il nome di Sheik Abdullah Saeed, gli disse che poteva restare. Qualche giorno dopo iniziò un intenso programma di addestramento nel sud del Waziristan. «Ero molto eccitato di iniziare», spiega «anche se il programma era molto duro». In tutto erano in trenta, provenienti da paesi ed etnie diverse: ceceni, tagiki, sauditi, siriani, turchi, due francesi di origine algerina e tre tedeschi: uno di origine europea e gli altri due di origine araba e turca. Hanif era il più piccolo, e l’unico afgano. La maggior parte aveva quasi trent’anni, uno ne aveva cinquanta. Chi conosceva l’arabo traduceva per gli altri.
L’addestramento iniziava ogni giorno prima dell’alba. Le reclute venivano portate nelle montagne e lì dovevano esercitarsi correndo su e giù con i kalashnikov. Hanif ha imparato a guidare la moto, la macchina, i camion. Ha imparato a combattere nella lotta corpo a corpo, a usare il coltello e il fucile. Gli hanno insegnato a maneggiare gli esplosivi e a preparare un giubbotto pieno di dinamite. «Ho imparato a riempire un giubbotto con cinque o sei chili di esplosivo, ne ho preparato anche uno per me, è lì al campo che mi aspetta». Sa perfettamente come si usa. Gli hanno insegnato a non dare segni di nervosismo mentre si avvicina al bersaglio. Gli hanno detto che i detonatori si devono tenere in una tasca chiusa con una cerniera per evitare che il bottone possa essere premuto troppo presto. Gli hanno spiegato che si deve avvicinare il più possibile al bersaglio, che non si deve fare esplodere appena lo vede da lontano. «Preferiscono i ragazzi svegli», dice «quelli capaci di seguire gli ordini, leggere le mappe, rimanere calmi, quelli che non si fanno esplodere lontano dal bersaglio».
Negli altri campi di addestramento in cui è stato ha trovato anche ragazzi più piccoli di lui. Una volta ne ha incontrato uno che aveva solo dodici anni. Quando Baitullah Mehsud se ne accorse durante un’ispezione, ordinò che venisse rimandato subito a casa. Ma poi Meshud morì durante uno degli attacchi dei Predator americani e nessuno si preoccupò di rispettare il suo ordine. Quando Hanif tornò in quel campo trovò molti altri bambini di quell’età che venivano addestrati.
Le cose sono iniziate a cambiare dopo l’omicidio di Benazir Bhutto. Il governo pakistano è diventato più intollerante nei confronti dei campi di addestramento e i vari gruppi si sono suddivisi in unità più piccole e si sono trasferiti in un campo di addestramento nel nord del Waziristan, sotto il comando di Sheik Saeed. Lì per la prima volta Hanif ha chiamato sua madre al telefono: «Lei piangeva», racconta «le dissi che sarei tornato a casa, anche se non volevo». Passarono altri tre mesi prima che si decidesse davvero a tornare. I suoi capi gli dissero che poteva tornare a casa se voleva, che non era vero che si diventava prigionieri della jihad come dicevano gli americani. Ma che sarebbe dovuto restare per non rischiare di farsi contaminare dagli infedeli. Partì verso casa convinto di tornare.
Poi i droni hanno iniziato a colpire sempre più spesso. «Non vedi e non senti niente prima dell’impatto del missile», spiega Hanif «gli effetti di un attacco possono essere molto devastanti, una volta ho passato ore a cercare tra le macerie dopo un attacco che aveva ucciso un comandante di Al Qaida e altri combattenti». Alla fine riuscirono a recuperarne la testa. Un’altra volta ha passato otto ore a scavare tra i resti di una casa che era stata colpita da un drone. Un combattente di Al Qaida era stato ucciso insieme alla moglie e ai figli. «Siamo riusciti a recuperare alcune parti dei loro corpi, ma non tutto», dice Hanif.
Secondo le ricostruzioni del sito Long War Journal, curato del giornalista Bill Roggio, quest’anno Obama ha già autorizzato 56 attacchi missilistici in territorio pakistano uccidendo almeno 200 persone tra leader talebani, militanti e civili. L’anno scorso i droni hanno colpito il territorio pakistano 53 volte. In totale sarebbero circa 500 le persone uccise dai missili sganciati dai Predator e dai Reaper nei primi venti mesi dell’amministrazione Obama. E gli analisti si dividono sulla percentuale di leader, militanti e civili uccisi. Come spiega sul Sole 24 Ore Christian Rocca, i droni sono diventati il pilastro della silenziosa escalation militare degli Stati Uniti in Pakistan.
L’esercito americano dispone di 200 droni, aerei con la coda a forma di “V” rovesciata di diversa grandezza prodotti dall’americana General Atomics Aeronautical Systems. I Reaper costano 11 milioni di dollari, la metà di un F16, mente i più piccoli Predator circa 4 milioni. L’Italia ne ha 4 in ricognizione sui cieli dell’Afghanistan, mentre il gruppo Finmeccanica attraverso Drs fornisce al Pentagono piattaforme, tecnologia e velivoli senza pilota attualmente non usati nei teatri di guerra. I droni sono teleguidati da una base in Nevada e sono in grado di colpire con precisione da 7mila metri di altezza gli obiettivi militari illuminati sul terreno dagli agenti segreti. Sono stati ideati come aerei da ricognizione, anche perché capaci di stare in volo per 24 di fila con un ridotto consumo di carburante. Dopo l’11 settembre, Bush ha cominciato a usarli anche per colpire i leader terroristi e nel corso degli anni il Pentagono li ha prima dotati di missili, poi di sistemi di autodifesa in grado di rispondere ad attacchi ostili. L’azienda produttrice non riesce a evadere le richieste del Pentagono, a conferma che per la Casa Bianca l’uso dei droni non è più soltanto uno strumento, ma una vera e propria strategia antiterrorismo, l’illusione che una guerra combattuta dall’alto – lontana, senza testimoni e a basso costo – possa allontanare l’attenzione e le critiche della volatile opinione pubblica interna.
Finora Al Qaida è riuscita a rimpiazzare le sue perdite. Nuove reclute continuano ad arrivare, a volte portando con sé anche più di ventimila dollari in contanti. I nuovi arrivati vengono studiati attentamente, per paura che qualcuno possa essere una spia. «I nostri capi hanno paura delle spie», spiega Hanif «l’anno scorso pensavano che alcune spie avessero messo delle cimici nelle nostre macchine in modo che i missili riuscissero a riconoscerle». Secondo Hanif, gli uomini di Al Qaida nell’area in cui si trovava il suo campo di addestramento non potevano essere più di 130. Circa la metà poi si è spostata in Afghanistan per sostenere i talebani contro gli americani. Il loro compito principale, spiega Hanif, consiste nel preparare i giubbotti che poi verranno usati durante gli attentati suicidi e nell’addestrare i talebani alle varie tecniche di preparazione degli esplosivi, invece che a combattere. Secondo Hanif sono circa 65 gli uomini di Al Qaida rimasti a presidiare le basi in Pakistan.
Hanif ammette candidamente di non avere la più pallida idea di quale sia la strategia d’insieme di Al Qaida e di non sapere quante altre unità operative possano fare parte dell’orbita di Bin Laden e del suo secondo Ayman al-Zawahiri. Dice che nessuno dei combattenti che ha conosciuto ha idea di dove si possa trovare, ma che tutti combattono in suo nome. Racconta con entusiasmo dei leader di Al Qaida che ha conosciuto, soprattutto del capo delle milizie pakistane Baitullah Mehsud e del suo successore Hakimullah Mehsud, del numero tre di Al Qaida Abu Yahya al-Libi e di Azzam l’Americano.
Mostra un video nel suo computer sostenendo che è stato girato durante la preparazione della cintura esplosiva usata da Balawi per l’attentato alla base americana di Chapman. Nel video si vede un uomo di Al Qaida che sistema l’esplosivo all’interno di piccoli tubi di stoffa collegati l’uno all’altro da alcuni fili. Poi l’uomo cuce il tutto con una vecchia macchina da cucire, aggiungendo qualche pezzo di pelle e qualche fibbia. A questo punto aggiunge il circuito elettronico e installa un detonatore.
Ma ad Hanif piace anche raccontare delle partite di pallavolo di arabi contro turchi giocate al campo e di quando ottenevano il permesso di andare a caccia di conigli e uccelli nelle montagne. Una volta al mese circa veniva mandato a comprare rifornimenti per il campo. A volte poteva spendere anche più di mille dollari per cibo, munizioni e anche qualche regalo. «I soldi non mancavano mai», racconta «ne avevano abbastanza per comprarsi nuovi pickup e Land Cruiser. Avevano anche una flotta di Ranger della Ford che erano stati rubati dai talebani in Afghanistan e portati in Pakistan».
Ad aprile l’unità di Hanif è stata mandata in Afghanistan. Partirono all’alba con i loro kalashnikov e i loro documenti falsi. Il suo gruppo fu assegnato a un’area della provincia di Kabul. «Ero orgoglioso di combattere nel mio paese». Anche se l’Afghanistan era più complicato del Pakistan e la sua unità era coinvolta in scontri a fuoco quasi ogni giorno. A luglio ha ottenuto un permesso per andare a trovare sua madre. Ormai è a casa da quasi due mesi, ma continua a sognare la jihad. «Ci sono cose terribili che puoi trovare su Internet o per strada, cose che ti possono corrompere, devi stare attento». Suo zio sta cercando di convincerlo a sposarsi e iniziare a lavorare, suo padre vorrebbe che finisse la scuola. Ma lui non ne vuole sapere, «se mi fidanzo come dicono i miei genitori, non potrò più avere la vita che amo».
Passa il tempo davanti al computer nella sua stanza da letto, navigando su siti che parlano dei talebani, di Al Qaida e della jihad. Evita accuratamente di entrare in contatto con le donne, anche se si tratta di siti islamici. Dice che è una perdita di tempo. Guarda dvd di imboscate compiute ai danni delle forze americane in Afghanistan e in Iraq. E poi chatta con altri giovani militanti come lui: «Mi mancano le montagne e i miei compagni, il mio cuore non è felice qui». Tra i documenti archiviati nel suo computer ce n’è uno datato 21 dicembre 2009. È il suo testamento, e come tutti i testamenti dei giovani che vogliono morire da martiri della jihad, si rivolge ai suoi compagni: «Ci rivedremo miei amati fratelli, ci rivedremo quando sarò in compagnia delle vergini».