Figli delle stelle
Esce il nuovo libro di Amedeo Balbi, astrofisico di riferimento del Post
“È cominciato tutto nel 2009, per colpa dell’ONU”, spiega Amedeo Balbi introducendo “Seconda stella a destra”, la raccolta di biografie di astronomi che uscirà il 16 settembre per De Agostini. Balbi fa l’astrofisico e la sua popolarità di divulgatore in rete risale a molto prima della sua assunzione a scienziato di riferimento da parte del Post, che ne ospita un blog (e che mette alla prova la sua pazienza insistendo a chiedergli degli oroscopi). Ma torniamo alla spiegazione del libro da parte dell’autore.
Erano passati quattro secoli esatti da quando Galileo aveva usato per la prima volta un cannocchiale per guardare il cielo, e quelli che stanno nel Palazzo di Vetro avevano deciso che era il caso di festeggiare. Sicché, con grande spreco di maiuscole, il 2009 diventò l’Anno Internazionale dell’Astronomia. Non sono in grado di spiegare i motivi per cui lo stesso anno doveva essere anche l’Anno Internazionale della Riconciliazione e l’Anno Internazionale delle Fibre Naturali.
Io avevo un blog, e ce l’ho ancora, dove, guarda caso, parlavo parecchio di astronomia, visto che di mestiere faccio l’astrofisico, e ho pensato che la pletora di celebrazioni organizzate in giro per il mondo non fosse abbastanza. Così, un po’ in sordina, ho deciso di iniziare a scrivere qualche minibiografia di astronomi celebri. Un blog è un blog: tutti fanno finta di sapere cosa sia, ma nessuno lo sa. A ogni modo, una cosa è certa, almeno per me: se lo usi per scrivere la biografia di uno scienziato, meglio che non sia come quelle che si trovano sull’enciclopedia. Sii breve, e prova a essere leggero.
Così, da Tycho Brahe a Fred Hoyle, le vite di una decina di astronomi sono finite sul web, più o meno una al mese. Parecchia gente le ha lette, e qualcuno di quelli che le hanno lette mi ha anche fatto sapere che gli erano piaciute. Finito il 2009, anche le vite degli astronomi potevano finire lì. Ci ho fatto un ebook e l’ho messo in rete, pronto da scaricare, per chi volesse leggerle tutte assieme.
Ma non era finita. La faccenda è cresciuta, in qualche modo, ha preso una forma un po’ diversa, e il risultato lo avete per le mani adesso. Ecco: una premessa per far capire un po’ meglio, spero, a chi sta per leggere questo libro cosa aspettarsi.
Sono storie, e i protagonisti delle storie sono persone che prima o poi hanno guardato il cielo o hanno pensato a come funziona l’universo. E guardando il cielo, pensando all’universo, hanno visto o capito per primi certe questioni, che poi sono diventate di tutti. Leggere le loro vite significa anche navigare attraverso le idee (a volte giuste, a volte sbagliate) che l’umanità si è fatta sull’universo. Alcune di queste idee le ho raccolte e spiegate meglio nella seconda parte del libro, per chi avesse voglia di capirne di più.
Dovrebbe essere superfluo precisare che la scelta di che cosa raccontare e di come raccontarla è del tutto personale: lo dico, più che altro, nel caso qualcuno non trovasse la sua astronoma o il suo astronomo preferito qui dentro. Se questo libro dovesse stimolarvi l’appetito per l’astronomia — cosa che mi auguro — avrete tutte le possibilità di riempirvi la pancia altrove.
Le idee di cui parla Balbi sono elencate nella sezione “spiegoni”, di cui il Post pubblica il capitolo dedicato al Big Bang.
Visto che l’universo si espande e le galassie si allontanano fra loro, come previsto da Friedman e confermato da Hubble, la tentazione di mandare il film al contrario è consistente. Se pigiassimo il tasto rewind, vedremmo qualcosa di simile alle schegge di un’esplosione ritornare verso il punto di partenza. Questa immagine — il grande botto con cui tutto avrebbe avuto inizio — suggerì a Fred Hoyle il nome del modello che cerca di descrivere l’origine e l’evoluzione dell’universo: il big bang. L’immagine è fuorviante, perché l’universo non ha avuto origine da un’esplosione, e meno che mai da un punto preciso. Ma si fa quel che si può.
In ogni caso, quello che conta è che secondo il modello del big bang l’universo si trovava, risalendo indietro nel passato, in uno stato di temperatura e densità sempre più alta. Nell’istante iniziale, temperatura e densità sarebbero infinite, il che è fisicamente privo di significato. La difficoltà viene però ignorata dal modello, che si concentra su ciò che accade subito dopo. In altre parole: tutto inizia con un universo caldo e denso che si espande.
Georges Lemaître la vedeva così: «L’evoluzione dell’universo è come uno spettacolo di fuochi d’artificio giunto alla fine: ultime scintille, fumo e cenere. Noi che viviamo nelle sue braci ormai spente, assistiamo allo scolorirsi dei soli e possiamo solo evocare lo splendore scomparso dell’origine dei mondi». Oggi abbiamo un quadro fisico un po’ più chiaro e siamo in grado di descrivere dettagliatamente l’evoluzione del cosmo dagli istanti immediatamente successivi al big bang (qualunque cosa sia) fino a noi. Secondo le ultime misure, il nostro universo avrebbe iniziato a espandersi circa 13,7 miliardi di anni fa.
Uno dei successi più straordinari del modello del big bang è prevedere correttamente quanti atomi di elio (oltre che di altri elementi leggeri) sono presenti nell’universo. L’idea la dobbiamo a George Gamow e ai suoi collaboratori. Per costruire il nucleo di un atomo di elio, la natura deve mettere insieme due protoni e due neutroni. Poi, per fare l’atomo completo serviranno anche due elettroni. I protoni, avendo entrambi carica elettrica positiva, si respingono e tendono a fare le bizze quando provate a farli stare insieme; i neutroni, essendo elettricamente neutri, non sollevano problemi. Per tenere insieme i protoni nel nucleo, deve subentrare l’attrazione dovuta alla forza nucleare forte, che vince rispetto alla repulsione elettrica solo quando i protoni sono molto, molto vicini fra loro. Morale della favola: per fondere protoni e neutroni in un nucleo di elio occorre una reazione nucleare, la quale si verifica soltanto quando la densità è talmente elevata da schiacciare i protoni in un volume piccolissimo.
In natura ci sono solo due posti dove questo può avvenire. Uno è il nucleo delle stelle. In effetti, le stelle si tengono in vita proprio convertendo nuclei di idrogeno in nuclei di elio. Il problema è che l’elio presente nell’universo è troppo abbondante per essere stato creato tutto nelle stelle. Ma esiste anche un altro posto: quel posto (ecco l’idea geniale di Gamow) è l’universo nelle fasi successive al big bang. Le condizioni per fondere nuclei di elio ci sono ovunque all’epoca. Facendo due conti, Gamow e i suoi si rendono conto che i dati tornano. La maggior parte dell’elio presente nell’universo si è formato nei primi tre minuti dopo il big bang.
L’aver azzeccato la faccenda dell’elio, per il modello del big bang, non è un dettaglio da poco: oggi, una spiegazione alternativa che funzioni altrettanto bene non c’è. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, il modello dello stato stazionario ideato da Bondi, Gold e Hoyle rappresenta un rivale temibile. Questo modello non mette in discussione il fatto che l’universo si espanda. Ciò che prova a fare è compensare la diminuzione di densità, dovuta all’espansione, con un’incessante creazione di materia dal nulla. Basta che ogni tanto spunti fuori una quantità di materia minuscola — in un volume grande come quello della nostra galassia si tratterebbe di pochi atomi l’anno, un fatto completamente inosservabile — per mantenere immutate le condizioni fisiche dell’universo, nonostante l’espansione.
Il modello di Gamow butta lì, un po’ tra le righe, anche un’altra previsione. Per fondere l’elio dopo il big bang, l’universo deve essere molto caldo. Poi, l’espansione lo raffredda, ma non completamente: così, un po’ di quel calore iniziale deve ancora essere in giro. Fatti i conti, viene fuori che la temperatura media nell’universo attuale è di pochi gradi — circa tre — sopra lo zero assoluto.
Né Gamow né altri danno troppo peso a questo particolare, forse perché sembra impossibile da provare sperimentalmente. Sennonché, succede che ogni corpo a una certa temperatura emette onde elettromagnetiche. Il nostro corpo, per esempio, emette radiazione infrarossa (proprio quella scoperta da Herschel), che non vediamo a occhio nudo ma che può essere rivelata con gli opportuni strumenti, come le videocamere per le riprese notturne. Secondo lo stesso principio, il calore residuo del big bang — quei tre gradi sopra lo zero assoluto presenti in ogni punto dello spazio, anche nelle regioni completamente vuote — deve essere rilevabile come un debole fondo di radiazione elettromagnetica, situato nella banda delle microonde.
Questo fondo cosmico di microonde viene captato, involontariamente, da Penzias e Wilson, mentre regolano il loro antennone. Si dà così la mazzata definitiva alla teoria dello stato stazionario, per cui il fatto rimane del tutto inspiegabile, visto che l’universo non deve mai aver attraversato una fase calda. Gamow ci ha visto giusto, ma lui non stappa la classica bottiglia di champagne, perché sa che lì per lì nessuno gli ha dato credito. «Se io perdo una monetina» si lamenta col suo solito stile colorito «e qualcuno trova una monetina, come faccio a provare che quella è la mia monetina? Eppure, io ho perso una monetina proprio dove loro ne hanno trovata una».
L’espansione dell’universo, l’abbondanza di elio e la presenza del fondo di microonde sono le tre principali prove sperimentali a favore del modello del big bang. Attualmente, esso è pienamente supportato dalle osservazioni ed è la migliore descrizione scientifica dell’origine e dell’evoluzione dell’universo.