Guida alle elezioni di midterm negli Stati Uniti
Prima cosa da sapere: guai a scrivere "medio termine". Seconda cosa: i democratici non sono spacciati
di Francesco Costa
Il prossimo 2 novembre negli Stati Uniti si voterà per le elezioni di metà mandato – in inglese “midterm” – che si chiamano così perché cadono esattamente a metà del mandato presidenziale.
Di che si tratta, di preciso
Nelle elezioni di metà mandato si rinnovano tutti i 435 membri della camera dei rappresentanti, e un terzo di quelli del senato (quindi 33 o 34, più quelli rimasti vacanti o occupati da membri “provvisori”: quest’anno saranno 37). In più si vota anche per eleggere i governatori di 39 stati. Per ciascuna di queste elezioni, negli scorsi mesi si sono disputate elezioni primarie sia tra i repubblicani che tra i democratici. Ogni sfida ha una sua campagna elettorale, di collegio o statale, e tutte insieme si allacciano in una campagna elettorale nazionale, che tocca inevitabilmente da vicino il gradimento sulle scelte e le politiche dell’amministrazione Obama. La posizione del Presidente nelle elezioni di metà mandato è complicata: da una parte è tra i pochissimi politici della nazione a non esserne direttamente coinvolto come candidato, dall’altra il suo futuro politico sarà pesantemente influenzato dall’esito di queste elezioni. In teoria non si parla di lui, trattandosi esclusivamente di elezioni locali; in pratica le sue politiche incidono eccome, e una vittoria o una sconfitta finiranno per rafforzare o indebolire lui più di ogni altro.
Cosa c’è in ballo
Il controllo del congresso (ovvero camera e senato insieme). In questo momento i democratici hanno la maggioranza sia alla camera (256 a 179) che al senato (59 a 41), come conseguenza delle vittorie alle elezioni del 2006 e del 2008. L’evoluzione dei cicli elettorali negli Stati Uniti è piuttosto regolare, per non dire matematica: soltanto due volte nella storia recente – l’ultima nel 2002, quando a causa dell’11 settembre la popolarità dei repubblicani era a livelli astronomici – le elezioni di midterm non hanno penalizzato il partito del Presidente, che di norma attraversa qualche difficoltà nella fase centrale del suo mandato. Avere il congresso controllato dalla propria parte politica può essere un vantaggio ma anche una grana: basti pensare alle difficoltà incontrate da Obama durante questi due anni e a come invece Clinton, che ha governato praticamente sei anni con un congresso repubblicano, abbia ottenuto la rielezione e poi lasciato la Casa Bianca con un altissimo indice di popolarità. La ragione è semplice: le regole del congresso statunitense – soprattutto quelle del senato – consegnano alle minoranze parlamentari diversi strumenti per bloccare o rallentare l’iter delle leggi. Quindi uno scenario in cui presidente e congresso pendono dalla stessa parte permette all’opposizione di fare muro contro qualsiasi proposta, che è esattamente quello che hanno fatto in questi due anni i repubblicani. Uno scenario più fluido – presidente di un partito, congresso di un altro – costringe le parti a incontrarsi, e quindi limita le posizioni strumentali dell’una o dell’altra parte.
Lo scenario politico
Come da tradizione, quindi, i democratici sono in sofferenza: hanno patito alcune brutte sconfitte nelle elezioni suppletive degli ultimi mesi, prima fra tutte quella che in Massachusetts ha consegnato ai repubblicani il seggio di Ted Kennedy, e soffrono il declino della popolarità di Obama, da mesi impantanata al di sotto del 50 per cento. Molti osservatori hanno riscontrato nell’elettorato statunitense l’enfatizzarsi di quel sentimento anti establishment che aveva avuto un suo ruolo nel portare lo stesso Obama alla Casa Bianca: ora che Obama e i democratici sono l’establishment, gli schiaffi toccano a loro. I repubblicani hanno soffiato sul fuoco, giudicando e dipingendo come il Male Assoluto l’agenda di Obama e le sue riforme. In questo hanno giocato un ruolo significativo i tea party, movimenti liberisti e ultra conservatori il cui impatto sulle elezioni è tutt’ora piuttosto incerto: da una parte porteranno a favore dei repubblicani un entusiasmo che i democratici hanno perso, dall’altra parte la loro influenza ha portato alla promozione e alla candidatura di alcuni politici indigesti agli elettori indipendenti. Paradossalmente in alcuni stati potrebbero rendere i giochi più semplici per i democratici.
La campagna elettorale
Si dice che Bill Clinton abbia vinto le elezioni del 1992 grazie a uno slogan che per lui aveva rappresentato anche una bussola nel corso della campagna elettorale: it’s the economy, stupid. Sondaggisti e opinionisti consideravano Bush pressoché imbattibile per via dei buoni risultati ottenuti sul fronte della politica estera e della popolarità che questi gli avevano garantito: Clinton ribaltò opinioni e pronostici spostando il tema delle elezioni dalla politica estera all’economia. Anche quest’anno l’economia sarà al centro delle decisioni degli elettori americani, visto che la ripresa è molto lenta e sia a destra che a sinistra si discute dell’efficacia delle misure adottate dall’amministrazione Obama. I democratici, comunque, non hanno tentato di spostare altrove l’attenzione degli elettori ma stanno tentando di addomesticare la belva: oggi Obama ha aperto la “settimana sull’economia” e presto annuncerà un nuovo pacchetto di riforme e misure per far muovere l’economia (guai a chiamarlo “secondo stimulus”, però). I repubblicani puntano sui toni catastrofisti: accusano i democratici di aver dato agli Stati Uniti la politica di uno stato europeo e di comprimere le libertà dei cittadini, tassandoli, vessandoli e controllandoli eccessivamente.
Chi vince se
Sintetizziamo, allora. Obama e i democratici potranno considerare una vittoria l’aver conservato la maggioranza sia alla camera che al senato. Vale l’opposto per i repubblicani: vincono se strappano ai democratici sia la camera che il senato. In questo momento i giochi sono aperti: che i repubblicani conquistino la maggioranza al congresso è certamente possibile, così come è possibile che questa rimanga in mano ai democratici. A dar retta ai sondaggi, forse oggi i democratici conserverebbero di un soffio la maggioranza sia alla camera che al senato. La tendenza degli ultimi mesi però favorisce i repubblicani, che stanno guadagnando posizioni. Insomma, i democratici non sono spacciati. Lo scenario per cui i repubblicani conquistano la maggioranza in uno solo dei due rami del congresso potrebbe essere considerato un pareggio.
I governatori
Ovviamente la stiamo facendo semplice. Perché c’è modo e modo di perdere e di vincere, perché perdere la camera – e lo speaker – non è come perdere il senato, perché alcune delle campagne elettorali locali hanno ormai visibilità e importanza nazionale… e perché poi ci sono i governatori. Sono 39 quelli che saranno eletti, di questi oggi 20 sono democratici e 19 repubblicani. Tra questi quelli della California, di New York, della Carolina del Sud e della Florida. Ma alle elezioni più interessanti arriviamo dopo.
Cosa succederà
Ci sono altri due mesi fitti di campagna elettorale: è una frase fatta, ma può davvero succedere di tutto. In questi due mesi Obama si dedicherà a fare campagna elettorale, e sappiamo che la cosa gli riesce parecchio bene: dovesse ricevere qualche buona notizia dall0 stato dell’economia, le cose potrebbero farsi migliori per i democratici. I repubblicani continueranno a criticare duramente l’amministrazione, tenteranno di trasformare l’elezione in un referendum su Obama e approfitteranno di qualsiasi questione controversa anche se non direttamente collegata alle competizioni in corso, vedi la moschea vicino Ground Zero. Come ogni volta, poi, potrebbe arrivare la cosiddetta october surprise: la notizia che cambia tutto.
Corse da seguire
Ce ne sono moltissime, noi vi segnaliamo le più interessanti. Tra i governatori vanno seguiti Nikki Haley, la repubblicana che in South Carolina cerca l’elezione nonostante i diversi scandali sessuali sul suo conto, e Chris Dudley in Oregon, ex stella della NBA dalle idee piuttosto liberali per essere un repubblicano. In California i repubblicani cercheranno di portare sulla poltrona di governatore Meg Whitman, ricchissima donna d’affari ed ex CEO di eBay, mentre invece al senato la loro candidata è Carly Fiorina, già presidente di HP. Al senato, occhi aperti su Charlie Christ, l’ex repubblicano moderato che ha lasciato il suo partito dopo essere stato bersaglio di una campagna ostile da parte degli estremisti dei tea party e del loro candidato, Marco Rubio. E poi quello che accade in Kentucky, dove i repubblicani candidano Rand Paul, personaggio bizzarro, figlio dell’anziano politico populista e libertario Ron Paul. In Nevada il leader dei democratici al senato, Harry Reid, si gioca una complicata rielezione contro il conservatore Sharron Angle. In Delaware e in Illinois si assegnano i seggi una volta occupati da Joe Biden e Barack Obama: i democratici rischiano di perderli entrambi.