La Cina si compra l’Australia
Ogni anno compra dall'Australia una quantità di ferro pari al valore di ventidue miliardi di dollari
Il Pilibara è una regione centrosettentrionale dell’Australia. Il suo vastissimo territorio – oltre 500 mila kmq – arriva fino all’Oceano Indiano ed è ricchissimo di minerali, soprattutto di ferro. Per secoli è stato abitato solo dagli aborigeni, che tuttora vivono in piccoli gruppi nelle zone più desertiche. Lo stesso nome – Pilibara – è un termine aborigeno che significa triglia, un tipo di pesce che si trova ancora in abbondanza nei torrenti delle montagne. Eppure oggi il Pilibara è un avamposto della Cina, che ogni giorno da questi territori fa estrarre tonnellate e tonnellate di ferro per la sua industria pesante. Businessweek questa settimana ha dedicato un lungo reportage a quello che sta succedendo nel Pilibara, e a che cosa significa per il futuro dell’Australia.
Qui, rappresentanti di aziende cinesi come Chinalco, CITIC, Sinosteel, Ansteel e China Metallurgic Group, lavorano insieme ai dipendenti delle aziende australiane che si occupano di estrazione mineraria. Tra i loro compiti – oltre alla costruzione di stazioni di benzina e altre infrastrutture – c’è quello di controllare l’estrazione del ferro che poi viene trasportato e caricato su delle enormi navi, lunghe fino a trecento metri. Ogni giorno ne partono almeno otto.
Si stima che la terra rossa del Pilibara contenga ventiquattro miliardi di tonnellate di ferro. Negli anni settanta veniva estratto in piccole quantità e poi trasportato in altre città australiane su delle Toyota o delle Mazda. Oggi invece il ferro lascia l’Australia per sempre. È in questa terra che si nasconde il miracolo economico dell’Australia, che ha visto il suo prodotto interno lordo crescere del 3,2 per cento nell’ultimo anno. Businessweek ha intervistato Michael Box, uno dei 45 mila australiani che vivono e lavorano nel Pilibara, e che era arrivato lì per la prima volta quando era ancora un ragazzino.
Quando arrivò qui negli anni settanta, Boxy lavorava per la Hamersley Iron che in quel momento stava costruendo l’insediamento di Paraburdoo che sarebbe servito come supporto per i minatori del Pilabara. Per 92 centesimi all’ora doveva trasportare sabbia e sassi, setacciare il ferro grezzo e poi caricarlo sui carrelli. Trentacinque anni dopo, Boxy è ancora qui, e ora guadagna 129 mila dollari all’anno come autista di camion per la Rio Tinto.
Ogni giorno alle 7.30 di mattina Boxy si sveglia nella sua camera in un prefabbricato di tre stanze vicino alla miniera. La sua casa è ricoperta di polvere rossa all’esterno ma all’interno dotata di tv a schermo piatto, telefono e internet. Dopo aver fatto colazione ed essersi cambiato, esce per andare nella miniera di West Angeles, una delle tante miniere che fanno parte di un’enorme rete di siti di estrazione in quell’area. Alle 8.30 è già al lavoro.
Negli ultimi trentacinque anni ha fatto di tutto. Dopo i primi undici anni di lavoro lo misero alla guida di un camion da cento tonnellate. Ora supervisiona un progetto che impiega camion automatici capaci di trasportare trecento tonnellate per volta. Ottantamila tonnellate nell’arco di due turni da dodici ore. Quando l’estrazione va bene, anche a 120 mila. Non avendo autisti, i camion sono più affidabili perché possono contare su radar e sensori che evitano che vadano a sbattere da qualche parte. Funzionano 24 ore al giorno.
Nonostante l’industria mineraria sia molto complessa, al suo livello più basilare è estremamente semplice: la terra viene estratta dalle miniere, caricata sui camion, portata sui carrelli e infine caricata nelle navi. Sono le dimensioni dell’operazione che lasciano a bocca aperta. I camion sono alti due piani. I treni sono lunghi un chilometro e scendono dalle montagne come dei fiumi verso la costa, dove li aspettano le navi. I milioni di tonnellate che le navi trasportano ogni giorno sono aumentati del settanta per cento negli ultimi cinque anni. La maggior parte è diretta in Cina.
Per quanto grande, il progetto di estrazione mineraria in Pilibara è solo uno dei tanti con cui la Cina sta finanziando il boom dell’Australia. L’azienda mineraria cinese Chinalco possiede circa il nove per cento della Rio Tinto, che a causa dell’enorme richiesta di ferro da parte della Cina è stata trasformata nella seconda più grossa azienda di estrazione mineraria del mondo. La Rio Tinto guadagna oltre dieci miliardi di dollari all’anno, e il settanta per cento di questi profitti vengono dall’estrazione del ferro.
Secondo le ultime statistiche la Cina ogni anno compra dall’Australia una quantità di ferro pari al valore di ventidue miliardi di dollari australiani. Nel 2009, quasi un quarto delle esportazioni dell’Australia – per un valore di oltre quarantadue miliardi di dollari australiani – sono andate verso la Cina. Tutti questi soldi hanno ovviamente aiutato l’Australia a non rimanere intrappolata nella recessione globale e a ridurre il tasso di disoccupazione nazionale al solo 5,1 per cento. «Qualsiasi ragazzo di vent’anni può venire qui a Pilbara e guadagnare 92 mila dollari all’anno», spiega Boxy. Il reddito medio di una famiglia australiana è di 67 mila dollari all’anno.
Gli investimenti della Cina nell’industria mineraria sono di tre tipi: esportazione, investimenti diretti nelle aziende australiane e finanziamenti di progetti specifici. Nel 2009 per esempio c’è stata un’esportazione pari a 42,4 miliardi di dollari australiani, tre miliardi di dollari di investimenti diretti in alcune aziende locali e più di 4,9 miliardi di dollari per altri progetti. Oltre il sessanta per cento dei progetti d’investimento proposti dalle aziende cinesi per il prossimo anno sono stati approvati dalla Commissione Australiana sugli Investimenti Stranieri. Il 99 per cento di questi investimenti riguarderà il settore minerario.
Ma da qualche tempo gli investimenti cinesi hanno iniziato a sollevare anche alcune delicate questioni politiche. I tentativi di alcune aziende cinesi di acquistare quote sempre maggiori delle aziende australiane hanno spinto il governo a intervenire. La Commissione Australiana sugli Investimenti Stranieri ha pubblicato un documento in cui scrive che gli investimenti diretti della Cina nelle aziende australiane devono restare al di sotto del 50 per cento. Anche se questo non sta frenando i finanziamenti diretti provenienti dalla Cina: lo scorso giugno, la China Development Bank ha concesso un finanziamento di oltre un miliardo di dollari per un progetto di estrazione del ferro nell’Australia occidentale che sarà condotto dall’australiana Gindalbie Metals e dalla cinese Angang Steel. Altri accordi simili sono già stati siglati per progetti nel Pilbara.
E poi ci sono i problemi sul fronte politico interno. La proposta di aumentare le tasse per il settore dell’industria mineraria è stato uno dei principali motivi che hanno portato alla caduta del governo di Kevin Rudd e che stanno mettendo in seria difficoltà l’attuale governo. Chi è favorevole sostiene che l’Australia non sta beneficiando abbastanza dei profitti delle aziende minerarie e chiede quindi che paghino più tasse. Ma la proposta ha trovato la forte opposizione delle aziende e dei loro lavoratori, i cui salari in media – secondo le stime dell’Australian Bureau of Statistics – sono tra i più alti del paese.
Molti sottolineano che gli enormi investimenti operati dalle aziende cinesi sono stati condotti senza considerare minimamente il loro impatto ambientale e sociale, e che per questo molte persone iniziano a temere quello che potrebbe succedere in futuro. Secondo Bob Kinnaird – ex membro del Dipartimento per l’Immigrazione e la Cittadinanza e ora consulente privato – gli interventi della Cina hanno peggiorato notevolmente le divisioni del paese sui temi di immigrazione, tasse e infrastrutture: «L’enorme crescita della presenza cinese in Australia, causata dal boom dell’industria mineraria, è stata gestita in modo molto sconsiderato. Le industrie coinvolte sono cresciute enormemente, ma a questa crescita non è corrisposto un adeguato aumento delle infrastrutture. Il risultato è che un grande numero di australiani che vivono nelle città sono molto preoccupati perché anche se gli indicatori economici dicono che le cose stanno andando bene, i reali standard di vita sembrano dire l’opposto». Secondo uno degli ultimi sondaggi svolti dal Lowy Institute for International Policy, anche se il 73 per cento degli australiani riconosce che gli investimenti cinesi hanno avuto un impatto positivo sull’economia del paese, il 57 per cento dice che la presenza della Cina ormai è troppo elevata e il 46 per cento teme che nei prossimi venti anni la Cina possa addirittura minacciare il paese con un intervento militare.
È soprattutto nei piccoli centri che gli effetti della massiccia presenza cinese sono percepiti come una minaccia. Specialmente da quando molte di queste cittadine si sono ritrovate appese per anni a progetti che non sono mai iniziati. A Wandoan, per esempio, un paesino nel Queensland tutto è fermo in attesa che la multinazionale cinese Xstrata prenda una decisione. Da anni ha pianificato un intervento per una minera di carbone da sei miliardi di dollari australiani, ma per il momento i lavori non sono iniziati. Xstrata ha comprato 70 mila acri di terreno per costruirci sette miniere. Quaranta famiglie avevano discusso a lungo prima di decidere se accettare o meno l’offerta di lasciare quelle terre in cui avevano vissuto per generazioni. Quando alla fine decisero di accettare e andarsene, come prima cosa il supermercato locale fu costretto a chiudere. A quel punto Xstrata decise di sospendere il progetto. Due mesi fa lo ha ripreso, poi si è fermato tutto di nuovo.
Dina Fraser, la cui famiglia ha gestito la farmacia locale per quaranta anni, dice che il progetto della miniera è stato tutto tranne che una benedizione per Wandoan. «Molte persone hanno perso le loro proprietà e alcuni hanno lasciato il paese», racconta «se la miniera non sarà costruita, Wandoan rischierà di scomparire». Anche gli ottomila aborigeni che vivono nel Pilbara sono a rischio. Tony Wiltshire, un meccanico che appartiene a quella comunità, spiega che i benefici degli investimenti cinesi potrebbero tranquillamente bypassare la popolazione locale: «La verità è che la discriminazione verso i locali è molto forte», dice «le grandi aziende fanno arrivare i loro lavoratori dalla Cina perché li possono pagare di meno e vedono queste miniere come progetti a breve scadenza».
Secondo Kinnaird non è niente di nuovo, «L’abbiamo già visto accadere negli anni ottanta con il Giappone: dopo aver preso quello che gli serviva, se ne andarono dall’Australia senza lasciare niente per la forza lavoro locale». Quasi tutti sono d’accordo nel dire che il governo dovrebbe costringere le aziende cinesi a costruire scuole, strade, ospedali e case nelle zone in cui lavorano, invece di limitarsi a sfruttarle con manodopera straniera a basso costo solo per il tempo necessario ai loro affari. Quelli come Boxy invece restano ottimisti: «Sono un uomo semplice, non avrei mai potuto avere una vita come quella di oggi se non fosse stato per l’industria mineraria», spiega «quando mio figlio doveva decidere che cosa studiare, gli ho mostrato tutto quello che avevo conquistato grazie al mio lavoro in miniera e ora ha deciso di studiare ingegneria: sarei felicissimo di averlo come uno dei miei capi».