Altre novantanove frustate per Sakineh
Altra pena, in attesa dell'esecuzione, per via di una sua foto senza velo pubblicata dal Times
Quelli che potrebbero essere gli ultimi giorni di vita di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata alla morte tramite lapidazione, si fanno sempre più orrendi e terribili. Prima la finta sulla sua esecuzione, messa in scena allo scopo di intimorirla e terrorizzarla, ora le viene assegnata un’ulteriore pena da scontare: novantanove frustate.
La ragione sarebbe la fotofrafia pubblicata qualche giorno fa dal Times, che illustrava un articolo su Sakineh Ashtiani con la foto di una donna senza il capo coperto dal velo. Il quotidiano britannico ha chiesto scusa, dicendo che la donna nella foto non era Sakineh bensì Susan Hejrat, un’attivista politica svedese. Altri però sostengono che la persona nella foto sia effettivamente Ashtiani, e dicono che chi ha improvvidamente passato l’immagine ai giornali sarebbe proprio suo figlio Sajad. Le autorità iraniane non avrebbero reagito e avrebbero confermato la condanna: in Iran tutte le donne sono obbligate per legge a indossare indumenti che coprano il loro capo e il resto del corpo.
Sakineh Asthiani si trova in un carcere di Tabriz da cinque anni. Prima era stata accusata di adulterio e punita con novantanove frustate davanti a uno dei figli, poi qualche mese fa è stata condannata alla lapidazione per l’omicidio del marito. In seguito alle pressioni della comunità internazionale, il tribunale iraniano aveva deciso di rinviare l’esecuzione della sentenza. Poi aveva fatto sapere che l’esecuzione ci sarebbe stata comunque, ma con un’altra modalità: impiccagione invece di lapidazione. L’uomo direttamente responsabile dell’omicidio di cui è accusata Sakineh invece è libero, era stato condannato a morte ma i figli di Sakineh hanno deciso di perdonarlo: «È il padre di una bambina di tre anni, ha pianto molto davanti a noi. Mia sorella ed io non abbiamo voluto essere la causa della sua esecuzione», ha detto Sajad.
Una sentenza di revisione del processo era attesa per il quindici agosto, ma quattro giorni prima del verdetto la televisione iraniana aveva trasmesso un video in cui Sakineh Ashtiani confessava con voce tremante di essere stata complice dell’omicidio di suo marito e di avere avuto una relazione con il cugino di lui. Il suo avvocato aveva spiegato che la donna era stata torturata per due giorni prima di accettare di confessare quello che le chiedevano davanti a una telecamera, coperta da un chador nero che lasciava intravedere solo parzialmente uno dei suoi occhi. Nei giorni scorsi alcuni giornali iraniani avevano attaccato Carla Bruni – la moglie del presidente francese Sarkozy – per la sua presa di posizione contro la condanna alla lapidazione di Sakineh. Il quotidiano ultra conservatore Kayhan aveva definito “immorale” la vita privata della signora Bruni e l’aveva chiamata “prostituta”.
Nonostante la lapidazione non sia mai menzionata tra le pene previste dal Corano, molte donne continuano ad essere condannate a questa pena nei paesi islamici più radicali. Soprattutto nelle regioni più rurali, più povere e meno istruite dove le sentenze vengono spesso emesse senza nessuna sostanziale documentazione ma solo sulla base di processi sommari, in cui ci si limita a prendere per vero quello che viene testimoniato dagli uomini del villaggio. Spesso poi le donne accusate sono del tutto inconsapevoli dei loro diritti, e gli stessi giudici non conoscono la complessità delle leggi e il carico di prove necessarie per una condanna. La lingua madre di Sakineh Asthiani è l’azero – la lingua che si parla nelle regioni nordoccidentali dell’Iran, al confine con l’Azerbaigiàn – e quando le hanno fatto firmare la sua sentenza di condanna non aveva neanche capito di che si trattasse perché non conosce il persiano.