“Somewhere” tra alberghi e Telegatti
L'inviato del Post a Venezia racconta l'ultimo film di Sofia Coppola, e il suo ritratto dell'intrattenimento italiano
di Gabriele Niola
Squadra che vince non si cambia, Sofia Coppola, dopo il flop di Maria Antonietta torna al cinema da camera (d’albergo) sulla solitudine e l’alienazione (non antonioniana!) e torna a presentarlo a Venezia come fu con Lost In Translation. E Somewhere davvero riprende quelle fila ma senza la stanchezza di chi ripete la formula che aveva vinto, bensì con la convinzione di chi torna a casa per fare un film personale.
Somewhere racconta di un attore, probabilmente famoso da poco — «con Sofia avevamo stabilito che doveva essere una cosa recente, come se fosse esploso da due o tre anni” ha detto l’attore che lo interpreta Stephen Dorff» — il quale conduce una vita assurda, sballottato tra un hotel pazzesco e l’altro, pieno di donne che ad ogni angolo gli si concedono ma tagliato fuori da relazioni umane vere. Durante il tour promozionale del suo ultimo la moglie divorziata gli lascia la figlia di 13 anni circa che, si intuisce, vede poco.
A questo punto il film è iniziato da soli 20 minuti e non succederà altro. Ovvero la trama bene o male non riserva altre svolte (escludendo il finale che non racconterò) ma solo il racconto della una solitudine e di come questa contrasti con il rapporto con la figlia, accompagnata dalla ricerca di quel somewhere del titolo in diretta contrapposizione con i mille nowhere in cui vivono. Infatti sono i mille non-luoghi che il protagonista si trova a frequentare (tra cui anche la serata dei Telegatti) e le persone che incontra solo per motivi economici o sessuali, a proiettarlo in una dimensione fuori dal tempo e dal senso. Per raccontare tutto questo (la solitudine, lo stare fuori dal tempo, il contrasto con la figlia e la vita fuori da tutto) e renderne davvero l’idea e i sentimenti ad essa legati, Sofia Coppola ritiene necessario prendersi tutto il film. E alla fine ci riesce. E come!
Anche stavolta lo spunto, non nascosto, è autobiografico. La Coppola è cresciuta negli hotel (che invece di odiare adora) seguendo il padre o il fratello; non l’ha detto ma probabilmente, come la bambina del film (la bravissima Elle Fanning, sorella di quell’altro mostro prodigio che è Dakota Fanning), anche lei non si stupiva al mattino di avere nella suite ragazze che non aveva visto la sera prima. Francis pare averla presa bene. «A mio padre il film è piaciuto, lui ci incoraggia sempre a perseguire progetti personali e fare quanti più film possiamo» ha detto la regista, e del resto dopo che in Tetro anche lui non aveva trattato bene il suo di padre non è che avesse molta scelta.
Capitolo a parte le scene italiane. Come si vede anche nel trailer Sofia Coppola si sofferma sul mondo dello spettacolo nostrano dipingendolo come è prevedibile che lo veda uno straniero. Simona Ventura e Nino Frassica (la donna attempata, piacente e tutta in tiro con il comico), le ballerine dei Telegatti (a cui da bambina era venuta veramente, accompagnando il padre), lo show pacchiano e poi Giorgia Surina, la veejay alla moda completamente vuota e sempre festante, tutto prevedibile, tutto vero ma anche tutto molto acuto.
La cosa che sorprende è che il ritratto non è generico ma molto preciso: sono rappresentate con minuzia le mille piccole ridicolaggini del nostro sistema-spettacolo (diverso da quello americano «che è comunque ridicolo» ha precisato la Coppola). Non ha insomma sparato a caso e nel mucchio ma con precisione chirurgica e, sebbene fossi preparato e mi vanti di non farmi impressionare da queste cose, un po’ mi ha fatto male.