Le cose che sappiamo di Sakineh
«Vi prego, non mollate, se non ci foste voi mia madre sarebbe già morta»
di Elena Favilli
Le hanno detto che l’avrebbero impiccata all’alba e l’hanno fatta preparare come se quello fosse il suo ultimo giorno di vita. Hanno lasciato che scrivesse una lettera con le sue ultime volontà, che abbracciasse le sue compagne di cella in un ultimo saluto prima della preghiera del mattino e che uscisse dal carcere convinta di essere accompagnata al patibolo. Invece era solo uno scherzo: l’ennesima tortura inflitta a Sakineh Asthiani, la donna iraniana di 43 anni condannata alla lapidazione dopo una confessione estorta sotto tortura e un processo sommario.
Suo figlio più grande Sajad, 22 anni, ha detto che la mobilitazione internazionale scatenata dal caso della madre ha infuriato le autorità iraniane, che si stanno vendicando infliggendo alla donna continue torture psicologiche e interrogatori. Da qualche settimana i suoi figli non possono più neanche andare a trovarla. «Se voi non ci foste, mia madre sarebbe già morta», ha detto Sajad in un’intervista a Bernard Henry-Lévy pubblicata oggi dal Corriere della Sera, «vi prego non mollate, non abbiamo nessuno, a parte voi, che ci tenga la mano, bisogna raddoppiare le pressioni sulla Repubblica Islamica».
Sabato scorso manifestazioni di protesta contro la sua condanna si sono tenute in oltre cento città in tutto il mondo, ieri c’è stata quella in Italia. Sakineh Asthiani si trova in un carcere di Tabriz da cinque anni. Prima era stata accusata di adulterio e punita con novantanove frustate davanti a uno dei figli, poi qualche mese fa è stata condannata alla lapidazione per l’omicidio del marito. In seguito alle pressioni della comunità internazionale, il tribunale iraniano aveva deciso di rinviare l’esecuzione della sentenza. Poi aveva fatto sapere che l’esecuzione ci sarebbe stata comunque, ma con un’altra modalità: impiccagione invece di lapidazione. L’uomo direttamente responsabile dell’omicidio di cui è accusata Sakineh invece è libero, era stato condannato a morte ma i figli di Sakineh hanno deciso di perdonarlo: «È il padre di una bambina di tre anni, ha pianto molto davanti a noi. Mia sorella ed io non abbiamo voluto essere la causa della sua esecuzione», ha detto Sajad.
Una sentenza di revisione del processo era attesa per il quindici agosto, ma quattro giorni prima del verdetto la televisione iraniana aveva trasmesso un video in cui Sakineh Ashtiani confessava con voce tremante di essere stata complice dell’omicidio di suo marito e di avere avuto una relazione con il cugino di lui. Il suo avvocato aveva spiegato che la donna era stata torturata per due giorni prima di accettare di confessare quello che le chiedevano davanti a una telecamera, coperta da un chador nero che lasciava intravedere solo parzialmente uno dei suoi occhi. Nei giorni scorsi alcuni giornali iraniani avevano attaccato Carla Bruni – la moglie del presidente francese Sarkozy – per la sua presa di posizione contro la condanna alla lapidazione di Sakineh. Il quotidiano ultra conservatore Kayhan aveva definito “immorale” la vita privata della signora Bruni e l’aveva chiamata “prostituta”.
Pochi giorni fa la polizia iraniana si è presentata nella casa dell’avvocato di Sakineh, Houtan Kian, e ha sequestrato gran parte dei documenti in suo possesso, compresa la sentenza del primo processo contro Sakineh, quello del 2006, in cui la donna era stata assolta dall’accusa di omicidio del marito. Da quel momento nessuno è più stato in grado di trovarne un’altra copia. La polizia dice che i documenti sono stati persi, ma Sajad li accusa di voler incastrare sua madre: «Stanno distruggendo tutte le nostre prove», ha detto «non erano documenti qualsiasi: erano i documenti della sentenza del processo contro mia madre. Li vogliono distruggere tutti perché sanno che ci sono tantissime contraddizioni e incongruenze». Tra le più eclatanti, il fatto che non sia indicato da nessuna parte chi sarebbe l’uomo con cui Sakineh avrebbe avuto una relazione extraconiugale. Il suo precedente avvocato, Mohammad Mostafaei, che per primo aveva portato il suo caso all’attenzione della stampa internazionale, è stato costretto a fuggire dall’Iran perché minacciato di morte. La moglie invece non ha fatto in tempo a scappare e ora vive imprigionata in un carcere iraniano.
Nonostante la lapidazione non sia mai menzionata tra le pene previste dal Corano, molte donne continuano ad essere condannate a questa pena nei paesi islamici più radicali. Soprattutto nelle regioni più rurali, più povere e meno istruite dove le sentenze vengono spesso emesse senza nessuna sostanziale documentazione ma solo sulla base di processi sommari, in cui ci si limita a prendere per vero quello che viene testimoniato dagli uomini del villaggio. Spesso poi le donne accusate sono del tutto inconsapevoli dei loro diritti, e gli stessi giudici non conoscono la complessità delle leggi e il carico di prove necessarie per una condanna. La lingua madre di Sakineh Asthiani è l’azero – la lingua che si parla nelle regioni nordoccidentali dell’Iran, al confine con l’Azerbaigiàn – e quando le hanno fatto firmare la sua sentenza di condanna non aveva neanche capito di che si trattasse perché non conosce il persiano.