Il deserto in Tibet
È in corso uno dei cambiamenti climatici più devastanti del nostro pianeta
Quando si parla di riscaldamento globale, raramente si sente nominare l’altopiano del Tibet. Eppure secondo gli scienziati il cambiamento che si sta verificando in quell’area è uno dei più preoccupanti tra quelli in corso nel nostro pianeta. Il problema principale è la progressiva riduzione dei manti erbosi, dovuta all’aumento delle temperature, all’eccessiva presenza di bestiame da pascolo e alla piaga costante di insetti e roditori. In molti punti – la cui estensione complessiva arriva a coprire un’area pari a un terzo della superficie degli Stati Uniti – tutto quello che resta è solo qualche macchia di vegetazione giallastra sulla superficie rocciosa.
Questa progressiva desertificazione riduce le capacità dell’altopiano tibetano di assorbire l’umidità e aumenta al contrario la sua capacità di irradiare calore. Sarebbe questo il motivo per cui i ghiacciai delle montagne intorno si sono surriscaldati a una velocità due o tre volte superiore a quella della media globale.
La situazione è poi aggravata dal fatto che le catene montuose che circondano l’altopiano agiscono da camino per il vapore acqueo prodotto dal progressivo scioglimento dei ghiacci. Il vapore acqueo – che è ancora più dannoso del biossido di carbonio nella produzione dei gas serra – finisce così per essere spinto nella stratosfera e per mescolarsi con le polveri inquinanti provenienti dalle regioni vicine, soprattutto dall’India. Il risultato è la formazione di una densa nuvola di colore tendente al marrone che si estende al di sopra delle catene montuose.
Il tutto contribuisce al progressivo inaridimento dei territori, e dell’economia delle popolazioni che ci vivono. Fino a dieci anni fa, racconta Jonathan Watts sul Guardian, la città di Maduo era una delle più ricche della provincia di Qinghai, grazie alle sue fiorenti attività di pascolo, pesca ed estrazione mineraria. Ora invece i suoi abitanti dicono che tutto si è prosciugato, proprio come i laghi che un tempo si trovavano lì vicino.
«Una volta qui c’era un lago. Non c’era neanche questa strada. Nemmeno una jeep sarebbe riuscita a passare da qui», racconta Dalang Jiri, la mia guida tibetana, mentre attraversiamo la zona. Secondo le stime più recenti, il settanta per cento della terra che in quest’area un tempo era adibita a pascolo ora si è trasformata in deserto.
Il governo di Pechino nel 2003 aveva lanciato un programma detto di “migrazione ecologica” che prevedeva di spostare l’ottanta per cento degli oltre due milioni e mezzo di pastori nomadi dell’altopiano tibetano ormai inaridito in nuove aree. Il governo cinese sostiene che il programma mira a ripristinare i manti erbosi, migliorare le condizioni di vita dei pastori e impedire l’accumularsi di mandrie troppo grandi. Ma il governo tibetano in esilio sostiene che si tratta in realtà di un progetto che fa ben poco per l’ambiente e che punta solo a liberare quei territori dai loro abitanti originari per poterne sfruttare le risorse minerarie e per trasferire i potenziali sostenitori del Dalai Lama in aree urbane, dove possono essere controllati più facilmente.
Qinghai è ormai punteggiata di questi centri che dovrebbero accogliere i pastori tibetani, molti dei quali sembrano destinati inevitabilmente a trasformarsi in ghetti. I nomadi possono ricevere dai tremila agli ottomila yuan all’anno e una casa in cambio di una concessione allo sfruttamento dei loro territori per dieci anni. In molti casi hanno problemi a trovare un lavoro e molti finiscono a riciclare spazzatura o raccogliere lo sterco degli animali. Alcuni si sentono traditi: «Se potessi tornare indietro lo farei. Ma la terra ormai è stata presa e le mandrie sono state vendute, quindi siamo intrappolati qui. Non abbiamo nessuna speranza», spiega Shang Lashi, uno dei residenti di un centro di Yushu, «ci avevano promesso un lavoro, ma qui non c’è lavoro. Viviamo con tremila yuan all’anno per la nostra concessione, ma il governo da quella cifra toglie i soldi per pagare le nostre case, che invece dovevano essere gratis».
La loro situazione è peggiorata con il terremoto che ha colpito Yushu lo scorso aprile, uccidendo centinaia di persone. Molti sono rimasti schiacciati dal crollo delle loro piccole case, un rischio che probabilmente non avrebbero corso se avessero continuato a condurre la loro vita nomade nell’altopiano. E ora gran parte di quelli che hanno perso la casa durante il terremoto vivono all’interno di tende, senza terra né bestiame. Nel frattempo la situazione nell’altopiano non sta migliorando. Soprattutto a causa dell’aumento di topi, gerbilli e altri roditori che si nutrono delle radici delle piante e il cui numero è spaventosamente aumentato negli ultimi dieci anni a causa della drastica scomparsa dei loro principali predatori – aquile, falchi e leopardi – che sono stati cacciati fino quasi all’estinzione. Per questo gli ambientalisti dicono che questa regione così importante dal punto di vista climatico dovrebbe essere studiata con molta più attenzione di quanto non si sia fatto finora.
«Non c’è stata molta attenzione per quello che succedeva nell’altopiano tibetano. Lo chiamano il Terzo Polo ma in realtà è più importante dell’Artico e dell’Antartico per la sua prossimità agli insediamenti umani», spiega Yang Yong, un ambientalista cinese.