La strage delle balene alle isole Far Oer
Trascurata dagli organismi internazionali, la racconta la Stampa
In mezzo all’annoso dibattito sulla caccia alle balene, e in particolare sulle deroghe concesse o pretese dalle navi giapponesi rispetto alla moratoria internazionale, oggi Fabio Pozzo racconta sulla Stampa del trascurato caso delle isole Far Oer, dove ogni anno si uccidono mille esemplari delle piccole balene Globicefale.
L’arcipelago delle Faroer, o Føroyar nell’idioma locale, lingua imparentata con l’islandese e con alcuni dialetti della Norvegia occidentale, si erge sull’Atlantico tra l’Islanda e le Shetland con l’impeto di un’onda.
Diciotto giganti di basalto, diciassette abitati. Sono emersi trenta milioni di anni fa dal blu dell’Oceano, sotto una spinta vulcanica che ha disegnato falesie vertiginose, scure e minacciose. Così brutali a vedersi da intimare l’altolà a coloro che si avvicinano dal mare, quasi fossero sentinelle d’un segreto. Quello di un patrimonio naturale di rara bellezza, costituito da fiordi profondi, valli che s’addolciscono nel verde dell’erba folta e grassa, scorci mozzafiato. Ma anche il mistero di riti che spezzano il cuore. È qui, infatti, che si combatte l’ultima battaglia degli ambientalisti. Qui, il nuovo fronte, dopo la «trincea» della baja di Taiji, quella della mattanza giapponese dei delfini, e dell’Isola de-la-Madeleine, in Canada, dove si uccidono a bastonate i cuccioli di foca.
Alle Faroer si può arrivare con la nave, ma anche dal cielo: ed è un’esperienza forte. L’aereo s’infila nelle nuvole, perde repentinamente quota sino ad atterrare sul sessantaduesimo parallelo. Poi si lascia l’aeroporto dell’isola di Vagar, costruito dai militari inglesi durante la Seconda guerra mondiale, striminzito come un deposito d’autobus e, il più delle volte, ci s’immerge nel nulla. Le nuvole sono così basse che toccano l’asfalto. È come viaggiare nell’ovatta, lungo il saliscendi continuo della rete stradale – perfetta, tunnel compresi – che porta a Tòrshavn.
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