Tutti i soldi che viaggiano tra Italia e Libia
Arriva a Roma il circo di Gheddafi e Repubblica spiega cosa c'è sotto i cavalli e le amazzoni
In occasione del circense arrivo a Roma di Muammar Gheddafi – con cavalli e amazzoni che aggiungono ridicolo all’imbarazzo della relazione diplomatica con un dittatore fiancheggiatore di terrorismi – Repubblica ricostruisce oggi l’estensione dei rapporti economici e commerciali costruiti dal presidente libico e il PresdelCons italiano. Scrive Ettore Livini.
La Berlusconi-Gheddafi Spa, a due anni dalla fondazione, è uscita da tempo dal folklore. L’oggetto sociale d’esordio – la chiusura delle ferite del colonialismo – è stato rapidamente archiviato all’atto della firma del Trattato d’amicizia bilaterale nel 2008. L’Italia ha garantito 5 miliardi in 20 anni alla Libia e Tripoli ha bloccato (a modo suo) il flusso di immigrati verso la Sicilia. Poi – snobbando i dubbi degli 007 Usa e dei “parrucconi” come Freedom House che considerano il Paese africano una delle dieci peggiori dittature al mondo – sono cominciati i veri affari. Un pirotecnico giro d’operazioni gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi («gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca», dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare – non è difficile immaginare in che direzione – gli equilibri della finanza e dell’industria di casa nostra.
Solo pochi giorni fa si è parlato di una scalata della Libia a Unicredit, di cui i fondi di quel paese possiedono già una quota. Poi la notizia è sembrata rientrare, ma l’intensificazione dei rapporti finanziari tra i due paesi è palese. Repubblica li elenca, con qualche rammarico per la limitatezza (eppure ci sono) di quelli che riguardano personalmente i due leader, ma spiegando che i benefici indotti per il premier italiano sono cospicui.
La premiata ditta Gheddasconi ha una caratteristica tutta sua. Gli affari diretti tra i due sono pochissimi. Anzi, solo uno: Fininvest e Lafitrade, uno dei bracci finanziari di Gheddafi, hanno entrambe una quota in Quinta Communications, la società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l’imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell’asse Arcore-Tripoli. Il grosso del business si fa per altre strade. Il Colonnello ha messo sul piatto un po’ del suo tesoretto personale (i 65 miliardi di liquidità di petrodollari accumulati negli ultimi anni). Il Cavaliere gli ha spalancato le porte dell’Italia Spa, sdoganando la Libia sui mercati internazionali ma pilotandone gli investimenti ad uso e consumo dei propri interessi, politici e imprenditoriali, nel Belpaese.
E quindi la lista della spesa libica in Italia è questa.
In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali. Palazzo Grazioli, nell´ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l’ok all’ingresso di Tripoli con l’1% nell’Eni («puntiamo al 5-10%», ha precisato l’ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti.
Quali sono i benefici per Berlusconi? La ricostruzione di Repubblica parla di risvolti di relazioni che si tramutano in affari veri e propri.
L’ingresso del Colonnello in Unicredit – oltre che a innescare i mal di pancia leghisti – è il cavallo di Troia per conquistare i vecchi “salotti buoni” tricolori, la stanza dei bottoni che controlla Telecom, Rcs – vale a dire il Corriere della Sera – e le Generali. Il momento per l’affondo è propizio. Il Biscione ha già piazzato le sue pedine negli snodi chiave: Fininvest e Mediolanum hanno il 5,5% di Mediobanca, crocevia di tutta la galassia. Tra i soci di Piazzetta Cuccia – con un pool di azionisti francesi accreditati del 10-15% – c’è il fido Ben Ammar. E gli ultimi due tasselli sono andati a posto in questi mesi. Lo sbarco di Tripoli a Piazza Cordusio, primo azionista di Mediobanca, stringe la tenaglia dall’alto. E a chiuderla dal basso ci pensa Cesare Geronzi, presidente delle Generali i cui ottimi rapporti con il Colonnello (e con il premier) – se mai ce ne fosse stato bisogno – sono stati confermati dalla difesa d’ufficio di entrambi al Meeting di Rimini. Niente di nuovo sotto il sole: l’assicuratore di Marino ha sdoganato Tripoli anni fa accogliendola nel patto di Banca di Roma (poi Capitalia) assieme a Fininvest. E ancor prima ha imbarcato la Libia in banca Ubae, guidata allora da Mario Barone, uomo vicino a quel Giulio Andreotti che solo un mese con il suo mensile 30 giorni ha pubblicato un volume sui discorsi pronunciati da Gheddafi nella sua ultima visita italiana.
Simmetricamente, spiega Livini, ci sono gli interessi privati italiani in Libia, esaltati da questa felice relazione “immortalata ora a imperitura memoria sul frontespizio dei passaporti libici”.
Ansaldo Sts (per il segnalamento ferroviario) e Finmeccanica (elicotteri) hanno incassato due maxi-ordini. I big delle costruzioni si sono messi in fila per gli appalti sulla nuova autostrada libica da 1.700 chilometri (valore 2,3 miliardi) affidata in base agli accordi bilaterali ad aziende tricolori. In questi mesi hanno attraversato il Mediterraneo pure l’Istituto europeo di oncologia e Italcementi mentre Impregilo ha consolidato con una commessa da 260 milioni la sua già solida posizione nel Paese nordafricano dove con 150 miliardi di investimenti infrastrutturali nei prossimi sei anni la torta – previo via libera della Gheddasconi Spa – è abbastanza grande per tutti.
Anche Gheddafi, come ovvio, ha il suo dividendo. L’Italia è il cavallo di Troia per portare la Libia fuori dall’isolamento nell’era in cui la liquidità, come dimostra il salvataggio delle banche Usa da parte dei fondi sovrani arabi, non ha più bandiere. Missione compiuta se è vero che persino a Londra – grazie a un’operazione di diplomazia sotterranea guardata con sospetto a Washington – l’abbinata politica-affari ha dato risultati insperati: la Gran Bretagna ha liberato un anno fa Abdelbaset Al Megrahi, l´ex 007 libico condannato per l’attentato di Lockerbie e il Colonnello ha dato subito l’ok alle trivellazioni Bp nel golfo della Sirte. Nessuno poi ha battuto ciglio nella City quando Tripoli ha rilevato il 3% della Pearson (editore del Financial Times) e fondato lungo il Tamigi un hedge fund. O quando il numero uno della London School of Economics è entrato tra gli advisor della Libian Investment Authority a fianco del banchiere Nat Rothschild e a Marco Tronchetti Provera.
Pecunia non olet. E anche l'(ex) dittatore Gheddafi non è più un appestato per le cancellerie internazionali. Il premier greco Georgios Papandreou è sbarcato qui per cercare aiuti. La Russia di Putin – altro alleato di ferro dell’asse Gheddafi-Berlusconi – si è aggiudicata fior di commesse a Tripoli come le aziende turche di Erdogan, altra new entry in questo magmatico melting pot geopolitico tenuto insieme, più che dagli ideali e dalla storia, dal collante solidissimo del denaro.