Sapete cosa significa la nostalgia di New Orleans?
È il titolo di una canzone, cinque anni dopo Katrina: un po' di cose da leggere
di Luca Sofri
Tutti i giornali americani – e non solo americani – si stanno avvicinando all’anniversario di Katrina con grandi racconti, inchieste, consuntivi, memorie, per la quinta volta. Io andai a New Orleans cinque mesi dopo la catastrofe e mi innamorai sia della città che della catastrofe, nel senso della sua formidabile potenza letteraria e naturale, oltre che della storia geofisica di quello che era successo. Il primo giorno scrissi questo:
Sono a New Orleans. Fa caldo, si sta in maniche di camicia. La sera no. La città è desolata, malgrado molte cose downtown abbiamo ricominciato a funzionare. Tra un mese arriva il carnevale, comunque. Stamattina sono stato a vedere il 9th Ward, la zona più colpita da Katrina, vicino a dove si sono rotti gli argini dell’industrial canal. È uno degli spettacoli più impressionanti che abbia visto in vita mia: anzi, non ho avuto una vita di grandi impressioni, quindi forse è il più impressionante. Per centinaia e centinaia di metri è un repertorio di tutte le immagini d distruzione che abbiamo visto in tv e nelle foto in questi mesi: case sbriciolate, alberi abbattuti sui tetti, automobili capovolte e finite in soggiorno, case spostate in mezzo alla strada, pareti sventrate, case piegate in due, eccetera. Il mio amico che mi ha portato abitava lì e non c’era più stato da quando era fuggito due giorni prima dell’uragano: neanche lui se lo immaginava così come lo vedeva. Poi con calma scrivo una cosa lunga, così mi spiego meglio.
“Do you know what it means to miss New Orleans” è una vecchia canzone resa famosa nel 1947 da Louis Armstrong e Billie Holliday e poi cantata e suonata un po’ da tutti. Questa è una versione più recente di Dianne Reeves.
Se siete degli appassionati di geografia umana e fenomeni naturali – se avete letto con passione Il controllo della natura di John McPhee – vi consiglio molto questa ricostruzione grafica fatta a suo tempo dal Times-Picayune che spiega quale accerchiamento di acqua assedi New Orleans e come sia andata cinque anni fa. E vi consiglio molto il libro di Dave Eggers, Zeitoun, e il numero speciale della rivista Good. E poi vi racconto di nuovo quello che vidi e pensai durante quella visita.
New Orleans sta tra il Mississippi a sud e il lago Pontchartain a nord. La città è nata a ridosso di un’ansa del fiume e poi si è estesa lungo il suo corso, e anord, verso il lago. Dall’altra parte del fiume ne è cresciuto un altro pezzo, ma è separato, distante: il fiume è immenso e scavalcato da un solo grande ponte stradale. A est, poi scorre verticalmente l’Industrial canal. Insomma, la città e circondata dall’acqua su tre lati. Quando ci fu l’uragano la città vecchia, appena sopra il livello dell’acqua e protetta da solidi argini, se la cavò con un po’ di distruzioni causate dal vento: tetti scoperchaiti, finestre sfondate, lampioni e alberi scaraventati in giro. I sobborghi ricchi in riva al lago invece furono allagati dalle sue acque, e riaffiorarono malconci ma in buona parte in piedi. Ma la peggio fu per il Ninth Ward, il vasto quartiere di casette della popolazione nera più povera, a ridosso del canale e in parte sotto il livello dell’acqua. Gli argini si sbriciolarono e l’onda rase al suolo tutto.
Ho un appuntamento con uno dei ragazzi di Common Ground, un gruppo particolarmente attivo negli aiuti alle vittime dell’uragano. Il tassista che mi porta fa fatica a trovare l’indirizzo, da qualche parte sull’altra riva del Mississippi. È un nero sulla cinquantina, piuttosto loquace, e mi spiega imbarazzato che è appena tornato in città dopo essere scappato a Houston con la famiglia due giorni prima della catastrofe. Si chiama Al. Gli chiedo del Ninth Ward, la zona più colpita dall’inondazione, e mi risponde che è dove abitava. Ci fermiamo a chiedere aiuto a un gruppo di operai: quello che pare essere il loro capo tira fuori una mappa e alla fine individuiamo il posto. È una casetta squinternata, con la porta chiusa da una catena. Nessuno. Chiamo il tipo di Common Ground e mi spiega che ha dovuto andare ad aiutare in una distribuzione di vestiti dall’altra parte della città. Così risalgo sul taxi. E chiedo ad Al se mi porta a vedere dov’era casa sua.
A girare di sabato per il French Quarter l’unica cosa che tradisce che di qui sia passato un uragano sono le T-shirts. Ce ne sono decine di tipi, a celebrare la catastrofe. Quelle spiritose sono due. Una scherza sui saccheggi dei giorni successivi al passaggio di Katrina: “Sono sopravvissuro a Katrina e tutto quello che mi resta è questa schifosa maglietta e un televisore al plasma”. L’altra ritrae il sindaco Nagin sotto le sembianze di Willy Wonka: “Mayor Nagin and the chocolate city”. È successo che il sindaco, un giovane nero che era stato eletto per la sua faccia nuova nella politica locale e per i suoi successi come imprenditore che aveva fatto i soldi con le reti televisive (già, già), dopo aver deluso molti per la scarsa efficacia dell’aministrazione nei giorni del disastro, ha ritenuto di dire una serie di scemenze da primato nei mesi successivi. Culminate nella considerazione che Katrina fosse stata un castigo di Dio per l’invasione americana in Iraq, e nella risposta a chi protestava contro il progetto per la ricostruzione di New Orleans accusandolo di voler espellere la maggioranza nera dalla città. “Vi prometto che questa tornerà a essere una chocolate city”, ha ribattuto il sindaco. Proprio così ha detto: “chocolate city”. Gli abitanti di New Orleans, neri e bianchi, non si sono nemmeno indignati: gli stanno ridendo dietro da settimane. Magliette comprese.
L’evento centrale del calendario di New Orleans è il Mardi Gras, il martedì grasso di tradizione europea. Un carnevale, insomma. Roba degna di Rio: cominciano a prepararsi il giorno della befana, e poi quel giorno lì parate, maschere, addobbi, carri, e ragazze che mostrano le tette. La polizia vigila e chiude un occhio sul tasso alcoolico delle moltitudini.
Quest’anno, il carnevale è un simbolo (un po’ tutto è un simbolo, quest’anno). La dimostrazione che tutto tornerà come prima, che la città è viva. Compaiono già ovunque le collane colorate e luccicanti che il martedì grasso saranno lanciate dai carri al popolo festante a centinaia: alcune restano appese agli alberi per anni, se non se le porta via un uragano.
Il Lower Ninth Ward non esiste più. Lo stesso Al non crede ai suoi occhi: non ci era mai tornato. La sicurezza da Cicerone con cui mi aveva portato qui parlandomi ininterrottamente di qualsiasi cosa, ha lasciato il posto a una debolezza attonita. Adesso è quasi come se lo avessi portato io, qui, e cercasse in me una sponda del suo stupore. “È molto peggio di come me lo ero immaginato dalla televisione”. Abbiamo di fronte un immenso repertorio di immagini di distruzione. Un catalogo. Case ridotte a cumuli di macerie, automobili capovolte in soggiorno, alberi che hanno sfondato il tetto, case trascinate intere in mezzo alla strada, pareti sventrate, case piegate in due come cartone. Quelle in piedi sono una su dieci, quelle intere una su venti, di solito in muratura, e con grossi danni comunque. Il Ninth Ward non era una baraccopoli. Da quel che ne rimane si vede che le case erano dignitose, alcune persino belle e antiche, quasi tutte di legno. Villette, o poco più che cottages, ma decenti. Al mi spiega che quando si dice “quartiere povero” vuol dire che la percentuale di poveri era molto alta, e c’erano zone intere infestate dalle gangs e dagli spacciatori. Ma qui ci stava moltissima gente onesta che aveva un lavoro, più o meno pagato. Ci stava lui stesso, che fa il tassista di secondo mestiere e ha una piccola impresa di costruzioni, e una moglie che fa la geologa a Houston. Non era uno slum. Ma era un quartiere povero abbastanza perché nessuno si fosse mai occupato di rinforzare gli argini del canale. Un uragano non va a colpire i neri poveri: un uragano becca nel mucchio, bianchi e neri, poveri e ricchi. Ma i ricchi si sono difesi meglio, e hanno più chances di riprendersi, dopo.
Malgrado le liti continue tra le varie istituzioni – il sindaco, il governatore della Louisiana, l’amministrazione Bush, il FEMA, i deputati locali – sui soldi necessari a ricostruire, una cosa è ormai chaira per tutti: la nuova New Orleans sarà assai più piccola della vecchia, che contava circa mezzo milione di abitanti. Oggi in città ce ne sono poco più di centomila, ma il progetto ne prevede circa duecentocinquantamila. Quelli che mancano, sono quelli che non torneranno perché non avranno più una casa, o una casa sicura, o si saranno adattati meglio altrove. Quasi tutti neri che abitavano nel Ninth ward o in altre zone povere della città. Il Times Picayune raccontava oggi che a Houston sono già operative nella criminalità locali alcune gangs traslocate da New Orleans. Dalla parte opposta, in South Carolina le autorità sono state così efficienti nell’aiutare un migliaio di esuli in difficoltà, che lo stesso giornale dice che la gran parte resterà là.
La New Orleans che ci si immagina è una New Orleans con meno neri, meno poveri, meno criminalità. A sentire le persone in città, sembrano tutti contenti. Tutti dicono che le cose andranno meglio. “Era diventato un mattatoio”, mi spiega una signora bianca davanti a un negozio elegante di Magazine street. Ma mi dice la stessa cosa anche un ragazzo che lavora in un bar del French Quarter, e persino il mio amico Al: “molta gente, è meglio se non torna”. Sono tutti d’accordo, quelli che se la sono cavata. Non è stata una maledizione divina per la guerra in Iraq, come dice il sindaco: è stata una tragedia naturale che il buon Dio ha compensato con una benedizione (per la guerra in Iraq?).
Giriamo con Al per il Ninth Ward, fermandoci a parlare con questo e quello. Ci sono ex abitanti tornati a verificare cosa ci sia ancora da salvare, ciclisti in gita, un fotografo tedesco, e due ex vicini di Al, con cui scambia battute esterefatte di fronte al panorama: “sembra sia passata una guerra”. Passiamo di fronte all’enorme chiatta rovesciata sulle case, trascinata qui dall’acqua, che è diventata un po’ il monumento alla distruzione del Ninth Ward. E davanti alla casa di Fats Domino, che era sempre rimasto ad abitare qui, costruendo vicino a casa uno studio e piantando un’enorme antenna parabolica in giardino, ancora in piedi. Nei primi giorni dei salvataggi nessuno lo trovava, e si pensava fosse morto: qualcuno scrisse con lo spray sulla facciata di casa “Riposa in pace, Fats. Ci mancherai”. Poi venne fuori che lo aveva portato in salvo un amico, ma la scritta rimase. L’amico, ora è lì davanti che cerca di mettere in ordine: Al si ferma a parlargli e a sentirli mi convinco che si conoscano da tanto, ma scoprirò che non si erano mai visti. Qui fanno così. Dentro casa, si intravede da uno spiraglio un pianoforte rovesciato e semiseppellito.
C’è un canale televisivo che trasmette 24 ore su 24 immagini della distruzione, con una musica classica in sottofondo e semplici didascalie che indicano il luogo e la data delle foto. Sono ipnotiche, potresti restare a guardarle tutto il giorno.
Squilla il telefono di Al, ed è suo figlio. “Sono al Ninth Ward con un giornalista, gli sto facendo da guida. È pazzesco. Devi venire qui a vedere. Devi assolutamente”.
Un altro simbolo del post-Katrina sono i teli blu distribuiti per rammendare i tetti sfondati: dall’alto, intere zone della città sono maculate di pezze blu.
Gli abitanti di New Orleans sono diventati tutti immobiliaristi. Non si parla d’altro che del valore delle case distrutte, del valore delle case rimaste, delle stime per i risarcimenti, di come l’uragano abbia modificato il valore di mercato di certe zone o di altre. Il Times-Picayune riporta continue indagini su questi valori, e le persone si fermano di fronte ai cartelli “vendesi” delle case e ne discutono con i passanti.
Alla storia che circola tra gli ex abitanti del Ninth Ward, per cui il canale sarebbe stato fatto saltare intenzionalmente per salvare le altre zone della città, Al non ci crede. “Siamo in America, siamo nel 2006: queste cose non succedono. La gente è ignorante: non nel senso offensivo della parola, è che non sanno le cose. Prima dell’uragano, non hanno saputo che dovevano andarsene, o non hanno capito. Adesso, immaginano le cose peggiori per spiegarsi quello che è successo. Ma se non sanno le cose, la colpa non è loro: è tutto il sistema dell’educazione che non funziona, per i poveri”.
Ieri hanno trovato il cadavere di una signora, in una casa di Jefferson Boulevard. È il morto numero 1038.
Adesso siamo fuori dal Ninth Ward. Abbiamo passato un paio di campi di roulotte per gli sfollati, e siamo nel quartiere bianco vicino, ShellMat. Qui non è tutto raso al suolo: qui sembra solo che sia passato un uragano, ma è pieno di gente e macchine al lavoro. “Qui ricostruiranno: è più sicuro, ci abitano i bianchi, ci sono già i soldi per farlo. Gli è successa la stessa cosa che è successa a quelli del Ninth Ward, o quasi. Quando arriva l’uragano, siamo tutti uguali. Ma un attimo dopo, siamo già di nuovo diversi”.
Il mio albergo è occupato interamente, salvo me, da sfollati, tutti neri. Una signora anziana e corpulenta cerca di ottenere informazioni alla reception sulla prossima scadenza del contratto con il FEMA. Sta arrivando il martedì grasso e gli alberghi vogliono liberarsi per i turisti, ma tutta questa gente non si sa dove metterla. Altri sono nelle roulottes, o sulle navi da crociera attraccate sul Mississippi. Intanto, qui, si è ricreata una situazione da sobborgo nero. Sfaccendati, incerti, in attesa, gli ospiti dell’albergo stannos eduti sui gradini o sulle sedie del cortile: ci sono anziani e bambini. L’albergo ha sospeso le pulizie delle stanze nel weekend, per risparmiare. Anche nella mia.
Il governatore ha fissato le elezioni amministrative, in due turni tra aprile e maggio. Nagin, è lo zimbello di mezza città. Persino Al, che a un certo punto mi ha detto di esserne “amico personale” (poi mi ha detto anche di essere cugino dell’ex capo della polizia, quello che si è dimesso sotto totale schock nei giorni successivi all’uragano: cominciavo a prenderlo con le molle, quando ho visto sul suo biglietto da visita che in effetti hanno lo stesso cognome). Persino Al, dicevo, ammette che non ha saputo gestire la situazione. Il Times Picayune si è lamentato che le elzioni non si fossero tenute addirittura prima, per dimostrare che i cittadini sanno meritarsi la normalità. Ma allestire i seggi con la popolazione sparsa in tutti gli stati vicini non sarà facile. Per le stesse ragioni, il Times Picayune è piuttosto seccato della questione che riguarda la squadra di basket, gli Hornets. L’anno scorso fecero schifo, e il pubblico li snobbava; quest’anno, per via del disastro, hanno traslocato a Oklahoma City, e vincono. Il pubblico laggiù è entusiasta. L’allenatore e alcuni giocatori dicono che là è tutta un’altra cosa. A New Orleans sono un po’ offesi, e li rivogliono in città.
Sono tornato in Italia. Tre giorni dopo, leggo che due tornado hanno colpito la zona dell’aeroporto, a New Orleans, scoperchiando alcune case. Passa una settimana, e un incendio distrugge il vecchio cinema dietro il mio albergo. Ci vuole molta pazienza.