Cinque luoghi comuni sul ritiro dall’Iraq
Anche dopo il ritiro rimarranno 50 mila militari americani in Iraq, che svolgeranno compiti molto simili a quelli odierni
Il 2 agosto Barack Obama aveva annunciato il ritiro – messo in pratica il 19 agosto, con un paio di settimane d’anticipo sui programmi – delle ultime brigate da combattimento in Iraq. Oggi il Washington Post tenta di sfatare cinque miti che sono stati ripetuti più volte a proposito dell’operazione.
“Da settembre non ci saranno più truppe statunitensi in Iraq”
Neanche lontanamente. Una quantità significativa – 50 mila uomini – di personale militare americano rimarrà nel Paese, sarà solamente chiamato in un altro modo. Non si chiameranno più “brigate di combattimento” bensì “brigate di assistenza e consulenza”, ma i compiti dei militari saranno sostanzialmente gli stessi. Per la stessa ragione, i soldati americani continueranno a rischiare la vita affiancando le unità irachene in missioni di combattimento, anche se solamente nella veste di “consiglieri”. Allo stesso modo piloti e forze speciali americane continueranno a sbrigare i propri compiti bellici in aree ad alta densità terroristica.
Ciò che è cambiato nell’ultimo anno e mezzo è il livello di violenza in Iraq: ce n’è molta meno. La guerra civile che fino a due anni fa agitava il Paese è stata repressa e i terroristi sono stati marginalizzati, perciò gli americani hanno avuto la possibilità di passare la gran parte dei propri compiti bellici alle forze di sicurezza irachene. Per questa ragione le divisioni militari in Iraq sono sempre meno impegnate in manovre di guerra, ed è più comune che si dedichino a operazioni di peacekeeping, di protezione del personale o delle strutture.
“Grazie al “surge“, l’aumento delle truppe voluto dal generale Petraeus, l’Iraq è un luogo abbastanza sicuro da non ricadere in una guerra civile al ritiro degli americani”
La situazione in Iraq è migliorata enormemente dai giorni più bui del 2005-2006, ma ciò che succederà è ancora tutto da vedere. Se si confronta l’insurrezione esplosa nell’Iraq con altre guerre civili simili – quelle in cui la destituzione di un governo porta diverse comunità a lottare fra loro – si nota una pericolosa propensione recidiva.
Nella metà delle guerre civili scoppiate nel secolo scorso, un nuovo conflitto è cominciato entro cinque anni dal cessate il fuoco. La percentuale aumenta se la nazione in questione ha una risorsa a cui ci si possa approvvigionare – oro, diamanti o, nel caso dell’Iraq, il petrolio – ma crolla sensibilmente se una grande potenza promette e mantiene un incarico sostanziale in qualità di mediatore e nella difesa della pace. Per questo l’impegno americano in Iraq è ancora così importante.
Infine bisogna tenere presente che le guerre civili, nella maggior parte dei casi, non scoppiano per volontà della pubblica opinione, ma quando leader politici o militari pensano di poter guadagnare qualcosa, o raggiungere i propri obiettivi, attraverso l’uso della forza. In questo senso la presenza di una forza militare di una grande potenza straniera può fungere da deterrente.
“Gli Stati Uniti se ne vanno lasciando un sistema politico allo sbando”
Se alcuni a destra sostengono erroneamente che il surge abbia stabilizzato l’Iraq al punto da rendere un ritorno alla guerra civile impossibile, le stesse controparti a sinistra insistono, altrettanto erroneamente, nel dire che il cambio delle strategie militari fra il 2007 e il 2008 non abbia avuto alcun effetto.
Lo scenario politico iracheno è completamente cambiato dal 2006 a oggi: la gran parte dei leader politici nazionali sono stati costretti ad abbracciare il metodo democratico, per quanto controvoglia. La battaglia si combatte a colpi di voti e non a colpi di uccisioni, almeno nelle dichiarazioni dei diversi partiti e l’obiettivo dei diversi leader è quello di convincere le persone, e non più di intimidirle. Le campagne, almeno fra i più avveduti, sono passate a promettere di fornire un governo stabile, lavoro, e servizi come l’acqua corrente o l’elettricità. Naturalmente il sistema politico iracheno è ancora un sistema chiuso, e di strada da fare ce n’è ancora molta, ma se si confronta lo scenario attuale con quello di tre o quattro anni fa si nota un netto miglioramento.
“Gli iracheni vogliono che gli americani se ne vadano” (oppure: “gli iracheni vogliono che gli americani restino”)
Bisogna stare davvero molto attenti a parlare dell’opinione pubblica irachena, e soprattutto di cosa essa voglia. I sondaggi sono, endemicamente, troppo poco accurati per cogliere tutte le sfumature di opinione che una simile questione può generare: generalmente mostrano una piccola percentuale di persone che vogliono gli americani fuori dai piedi il prima possibile, un’altra piccola percentuale che vorrebbe che gli americani rimanessero per sempre, e una grande maggioranza di persone nel mezzo che vorrebbe un ritiro degli americani, ma soltanto all’adempimento di alcune condizioni.
In genere l’opinione sul quale sia il momento più adatto perché le truppe USA se ne vadano – che varia dal prossimo mese a diversi anni – si collega a quanto la persona interpellata sia convinta che le forze di sicurezza locali possano gestire le tensioni nel Paese. Gli iracheni sono nazionalisti, e soffrono la presenza militare americana. Inoltre molti di loro sono fortemente critici per la scarsa lungimiranza di un’invasione americana condotta senza un robusto piano per la ricostruzione, cosa che ha portato alla guerra civile del biennio 2005-2006.
Allo stesso tempo, però, moltissimi hanno tirato un sospiro di sollievo quando le forze di sicurezza guidate dagli Stati Uniti sono intervenute per interrompere quel ciclo di violenze: la paura è che alle forze locali, che non hanno mai condotto le operazioni da sole, possa sfuggire di mano la situazione, rigettando così il Paese nell’inferno. Per l’insieme di queste ragioni si può dire che l’opinione pubblica irachena è ambivalente: determinata a mettere fine alla presenza americana nel Paese, ma terrorizzata dalla stessa possibile evenienza.
“La guerra finirà nei tempi previsti”
Lo ha detto lo stesso Obama in un discorso ai veterani questo mese, così come lo aveva detto diverse volte Bush. È sciocco, perché nessun conflitto è mai finito nei tempi previsti, neanche nelle vittorie più schiaccianti come quella israeliana nella Guerra dei Sei Giorni o quella americana nella prima Guerra del Golfo. In più, le conseguenze di una guerra durano per anni.
Andando avanti nel tempo l’impegno americano in Iraq continuerà – si spera – a scendere, ma la necessità di una presenza americana nel Paese durerà a lungo. L’Iraq ha dimostrato un grande potenziale, che però al momento è rimasto, appunto, solamente in potenza. E per gli interessi degli Stati Uniti quella è una delle aree strategicamente più importanti. Per questa ragione ha fatto bene Obama – che al ritorno dalle vacanze pronuncerà un discorso proprio a proposito del ritiro dall’Iraq – ad avvertire gli americani che l’impegno in Iraq sarà ancora fondamentale e dispendioso, anche in termini di vite umane – quale che sia il nome dato alla missione.