Impeachment, le volte che ci hanno provato
La storia di un articolo della Costituzione mai utilizzato ma spesso usato come arma di minaccia politica
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri ha rimbrottato l’onorevole Bianconi del PdL che lo aveva accusato di “tradire la Costituzione”, dicendogli che per i presidenti che tradiscono la Costituzione esiste una fattispecie ben precisa, creata dall’articolo 90 della Carta, e quindi Bianconi farebbe bene – anzi: «avrebbe il dovere» – di avvalersene.
Sui giornali di oggi Bianconi fa marcia indietro, dice che Napolitano ha esagerato e che ha colpito lui per mandare un messaggio a Berlusconi. Rimane l’ennesima vuota polemica estiva – ve l’abbiamo detto come funziona: ogni mattina comincia uno diverso, tutti gli rispondono e si arriva stancamente alla sera – e un promemoria sul fatto che la nostra Costituzione prevede la possibilità di sfiduciare il presidente della Repubblica. Paolo Cacace sul Messaggero di oggi racconta di quando qualcuno ci ha provato, a mettere sotto accusa il Presidente. Cominciamo dall’articolo 90 della Costituzione, che regola la materia.
Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri.
La procedura quindi non è semplicissima, per quanto sicuramente non proibitiva: numericamente il centrodestra potrebbe già oggi sfiduciare Napolitano. Politicamente si tratta però di una decisione gigantesca, considerate le motivazioni per cui il capo dello Stato può essere sfiduciato: alto tradimento e attentato alla Costituzione. Per questo nella storia repubblicana le minacce di impeachment – termine mutuato dalla politica statunitense, dove però la materia è regolata in modo differente – sono sempre state un’arma politica, una minaccia, uno strumento per manifestare il proprio dissenso dalle scelte del Presidente.
Rientrano in questa casistica. ad esempio, le reiterate minacce di cui fu bersaglio Oscar Luigi Scalfaro, responsabile agli occhi del centro-destra di un vero e proprio “golpe bianco” per aver varato il governo Dini dopo la caduta del primo governo Berlusconi. Caratteristiche intimidatorie – con ben altro peso – aveva l’iniziativa assunta dal PCI nel maggio del 1978 per ottenere l’impeachment di Giovanni Leone. Fu proprio il passo formale annunciato dalle Botteghe Oscure che indusse il capo dello Stato a rassegnare le dimissioni dall’incarico sotto il peso della campagna di stampa orchestrata dall’Espresso (e in particolare da Camilla Cederna e Gianluigi Melega) per le presunte responsabilità di Leone nello scandalo Lockheed. Leone sperava di poter contare sul sostegno del suo partito, la DC, che invece al momento opportuno lo abbandonò al suo destino per accuse che poi risulteranno infondate.
Un altro precedente riguarda Francesco Cossiga, accusato dal PdS e da Achille Occhetto di attentare alla Costituzione con le sue dichiarazioni provocatorie volte a modificare il sistema istituzionale – le cosiddette “picconate” – e soprattutto per la sua appartenenza alla struttura militare clandestina Gladio. La cosa singolare è l’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, era all’epoca un membro del PdS, e si oppose alla linea di Occhetto.
Il dibattito all’interno del partito fu serrato e se prevalse la linea di Occhetto va ricordato che Giorgio Napolitano si schierò decisamente contro la richiesta di impeachment, la giudicò «un errore politico» sostenendo che invece bisognava cercare un ampio arco di forze per indurre Cossiga a prendere atto della «inevitabilità delle sue dimissioni».
Anche quella volta, però, non si arrivò al voto in Parlamento. Cossiga si dimise di sua volontà pochi mesi prima la fine naturale del suo mandato.
Cossiga lasciò il Quirinale con un leggero anticipo, per sua volontà. E il “dossier” sull’incriminazione finì in un archivio della Procura di Roma. Dove probabilmente si trova ancora.