Una volta qui era tutto un tunnel
A Gaza i tunnel sotto al Muro stanno chiudendo, paradossalmente anche grazie a Freedom Flotilla
di Giovanni Fontana
Un anno e mezzo fa sembrava la più grande emergenza della politica estera israeliana. Attraverso i tunnel sotto Gaza passava di tutto: armi, esplosivo, generi alimentari, carburante, materiale edile – perfino automobili! – eludendo un embargo che, almeno ufficialmente, era stato imposto per impedire ad armamenti e merci potenzialmente nocive all’incolumità degli israeliani di arrivare nella Striscia.
Per ogni tunnel scoperto e distrutto dalle autorità egiziane ne venivano aperti di nuovi, tanto che si stimava la presenza di almeno un migliaio di passaggi sotto alla frontiera fra Striscia di Gaza ed Egitto e l’economia della Striscia si fondava al 40 percento sui proventi di questo tipo di contrabbando. Naturalmente tutto era nelle mani di Hamas, che aveva il potere di imporre dazi – di guadagnare, perciò, da ogni scambio – oltre che il controllo assoluto su ciò che poteva passare e ciò che non poteva. Chi lavorava sotto terra doveva avere una vera e propria licenza fornita dall’organizzazione terroristica, ed era in vigore una sorta di foro giudiziario a Gaza incaricato di dirimere le controversie che potevano scaturire nell’amministrazione dei tunnel.
Siccome il mestiere era rischioso – in più occasioni lavoratori sono morti per l’intervento dell’esercito israeliano o egiziano, oppure per il crollo del sottopassaggio – il Governo garantiva che ogni proprietario dotasse i propri lavoratori di una sorta di assicurazione sulla vita, da donare alla famiglia in caso di prematura morte del parente, spesso un giovane in età da lavoro. La gran parte degli operai lavorava a cottimo e con l’obiettivo di poter acquisire una quota del tunnel, così da passare dall’altra parte del mestiere e diventare un amministratore.
Dal 2007 e fino a pochi mesi fa, la questione aveva una tale risonanza che Slate provò a ipotizzare quali fossero i dieci modi che Israele aveva a disposizione per smantellare il complesso arzigogolo delle vie di comunicazione nel sottosuolo. Sebbene nessuno di questi sia stato messo in pratica fino in fondo, sembra che l’economia – è proprio il caso di dirlo – sotterranea della striscia di Gaza abbia subito una brusca frenata: a raccontarlo è Foreign Policy.
L’enorme indotto generato dal grande traffico nei tunnel – fatto in prima istanza di caffè, ristori, e commercio di generi di prima necessità per gli operai – è quasi completamente bloccato, e le attività che erano nate attorno al business delle diverse tratte illegali stanno chiudendo una a una. Uno dei motivi di questo esito è la nuova solerzia egiziana nel cercare di chiudere i tunnel, anche con mezzi poco ortodossi come l’introduzione di gas letali che rimangono nei cunicoli – lunghi diversi chilometri – anche per mesi.
A Gaza si dice che abbiano funzionato di più le misure di contenimento adottate dagli egiziani che i bombardamenti israeliani. In effetti Israele sembra essere riuscita a convincere l’Egitto che l’isolamento di Hamas sia una misura che conviene a entrambi, e ciò si vede anche soltanto dal differente livello di occultamento che subiscono le entrate dei sottopassaggi: a Gaza sono quasi a cielo aperto, e tutti sono a conoscenza della dislocazione dei vari ingressi; in Egitto, invece, sono nascosti in remote case dell’entroterra a qualche chilometro di distanza dal confine.
In realtà Hamas sostiene che se Mubarak volesse, avrebbe il potere di chiudere tutti i tunnel in pochi secondi, ma che il motivo per il quale stenti a farlo è che non possa permettersi di sfidare la rabbia delle comunità arabe, che vedrebbero con sdegno delle azioni che mettano in ginocchio la popolazione a Gaza.
È vero che l’assalto israeliano del 31 maggio alla Freedom Flotilla diretta a Gaza ha avuto un effetto collaterale sul contrabbando nei tunnel, che ha reso per gran parte superfluo il lavoro di prevenzione: l’imbarazzo generato dalla scomposta risposta dell’esercito israeliano ha costretto Israele ad allentare l’embargo su Gaza cosicché nei mercati della Striscia sono tornate a essere disponibili molte merci prodotte oltre il muro. I beni israeliani sono più economici e di migliore qualità di quelli egiziani cosicché in molti, a Gaza, hanno smesso di rivolgersi al mercato nero.
Fanno eccezione le merci che Israele mantiene ancora sotto embargo, come il cemento, che – per il passaggio nei cunicoli – continua a subire una sovrattassa di più del 100 percento rispetto al prezzo che viene pagato in Egitto, luogo d’origine del cemento contrabbandato nei tunnel. Il fatto che un allentamento dell’embargo, come prevedibile, abbia ridotto drasticamente il mercato nero dimostra quanto l’embargo imposto dal governo israeliano avesse un carattere vessatorio, limitando l’afflusso di prodotti che non avevano nulla a che vedere con la guerriglia.