Da grandi poteri derivano grandi responsabilità
I consigli di Foreign Policy a Wikileaks su come far del bene, ed evitare di mettere in pericolo dei civili
Dopo la pubblicazione dei cosiddetti diari della guerra, 92mila rapporti riservati dell’esercito statunitense in Afghanistan, Wikileaks ha iniziato a ricevere forti critiche anche da quelli che prima erano suoi sostenitori. Prima cinque ong – tra cui Amnesty International – hanno chiesto di cancellare dai rapporti i nomi dei civili afghani, la cui incolumità è stata messa a rischio dalla pubblicazione dei documenti. Nei giorni scorsi si è fatta sentire anche Reporter senza frontiere, ha attaccato duramente il sito diretto da Julian Assange, parlando di “comportamento irresponsabile”.
Charli Carpenter su Foreign Policy ha deciso di dare qualche consiglio a Wikileaks per gestire al meglio — e soprattutto per il bene — il potere che si è guadagnato. La critica principale che Carpenter muove al sito riguarda i difetti evidenti della scelta di pubblicare 92mila rapporti nudi e crudi, senza alcun filtro: la caoticità delle informazioni, inaffrontabili per più o meno qualsiasi lettore, uniti al rischio che all’interno dei documenti ci siano informazioni inutili alla causa della “verità a tutti i costi” ma che possano però mettere in pericolo la vita di soldati o civili.
I diari della guerra afghani hanno dimostrato due cose: che a oggi non ci sono standard precisi per organizzazioni di questo genere, e che c’è un urgente bisogno di creare un’etica, se si vogliono ottenere risultati con il modello Wikileaks.
Se Wikileaks ha in mente di rilasciare gli altri 15.000 documenti del suo archivio sull’Afghanistan, dovrebbe prendere in prestito qualcuno dei principi etici dell’organizzazione che apparentemente è al suo opposto: l’esercito. Per i militari, combattere una guerra non è un crimine, ma è un crimine attaccare indiscriminatamente ampie zone senza preoccuparsi delle potenziali vittime civili. Devono scegliere gli obiettivi con attenzione. E questa modalità dovrebbe essere applicata a organizzazioni che hanno lo stesso obiettivo di Wikileaks: pubblicare solo documenti specifici in relazione a dove si sono verificati degli errori, e minimizzare il danno collaterale.
Il 5 aprile scorso Wikileaks ha pubblicato “Collateral murder“, il video di un attacco aereo a Baghdad del 2007, in cui i soldati americani avevano sparato da un elicottero uccidendo undici persone, tra cui un fotografo e un autista dell’agenzia di stampa Reuters, e ferendone altre, tra cui due bambini. Fino alla pubblicazione del video, l’esercito statunitense si era sempre giustificando descrivendo come “forze ostili” le persone a cui stavano sparando. “Collateral murder” venne ripreso dai siti di informazione di mezzo mondo, e mise sotto l’attenzione dei media non tanto l’episodio in sé, ma più in generale l’atteggiamento dell’esercito e le modalità delle azioni militari in Afghanistan. Carpenter scrive che è esattamente questo che dovrebbe fare Wikileaks.
Le regole di ingaggio obbligano i soldati a rifiutare ordini illegali e denunciare i crimini ma è raro che questo accada, sia per le dinamiche della catena di comando, sia per gli insegnamenti di lealtà e obbedienza che gli sono stati impartiti. Se Wikileaks agisse in modo più capillare e attento, potrebbe dare la possibilità ai soldati di denunciare i crimini anonimatamente, dando loro un canale di sfogo sicuro in cui non temere le ritorsioni dell’esercito. Una modalità di pubblicazione del genere, più controllata, non porterebbe semplicemente a un numero maggiore di documenti e rapporti, ma soprattutto alla consapevolezza dell’esercito di essere sempre, in qualche modo, osservato.
Un centro di informazioni del genere incoraggerebbe i governi a portare avanti investigazioni più dure, punendo direttamente le trasgressioni, facendo da deterrente per atrocità future.