C’è peccato e peccato
La Stampa osserva come in Italia per cancellare uno scandalo basta tirarne fuori un altro
Michele Brambilla sulla Stampa osserva uno dei tanti curiosi fenomeni della politica italiana: quello per cui per cancellare uno scandalo – uno scandalo vero, di quelli di cui parlano tutti, di quelli che fanno dimettere i ministri – basta semplicemente tirar fuori un altro scandalo, e così via. Con la conseguenza ancora più perversa di attribuire a tutti gli scandali lo stesso valore.
Che ne è dell’inchiesta su Verdini? E di quella sulla P3? E Cosentino, l’ex sottosegretario sul quale pende un mandato d’arresto, e che continua a guidare il Pdl in Campania? E che fine ha fatto Brancher, nominato ministro per cercare di sfuggire, grazie al legittimo impedimento, a un processo nel quale è poi stato condannato? E il ministero lasciato libero dal dimissionario, o meglio dimissionato Scajola, e ancora vacante? E il senatore Dell’Utri, condannato in appello a sette anni per concorso in associazione mafiosa e ancora ben ancorato al suo seggio in Senato?
Erano questi i temi che fino a pochi giorni fa occupavano le prime pagine dei giornali. Tutto svanito, tutto evaporato, tutto cancellato dall’inchiesta sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e finita in affitto al fratello della compagna di Fini. Sembra che l’intera «questione morale» ora sia ridotta solo a questo, solo alla casa di Montecarlo e alle presunte responsabilità di Fini.
Intendiamoci bene. Non è in discussione l’importanza della vicenda Fini-Tulliani. Anzi. «Il Giornale», sollevandola, ha dato una notizia; di più, ha fatto uno scoop, e quindi tanto di cappello. Quanto a Fini, ha davvero il dovere di chiarire fino in fondo ciò che non è stato ancora chiarito: anche prendendo per buona la sua autodifesa, resta da accertare chi ci sia dietro la misteriosa finanziaria che ha acquistato l’immobile. Il punto è un altro. È che c’è da chiedersi che razza di clima sia un clima in cui la politica vien fatta ormai esclusivamente a colpi di dossier sui peccati altrui; e un clima – quel che è peggio – in cui chiodo scaccia chiodo, e quindi ha dignità di attenzione soltanto l’ultimo, in ordine cronologico, degli scandali sollevati. Nei giorni scorsi Giuliano Ferrara ha scritto una riflessione interessante su dove ci sta conducendo questa politica del fango nel ventilatore. Ci permettiamo di aggiungerne qualche parola.
Il primo degli effetti perversi di questa politica (e di questa informazione) fatta di accuse e controaccuse, è appunto che sbandierando uno scandalo si ottiene l’effetto di cancellare i precedenti. Ma il secondo, forse finora sottovalutato, riguarda l’ancor più perverso risultato di attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre. Così, a chi contesta una condanna in appello per mafia, o un procedimento per camorra, o pressioni per condizionare gli incarichi di magistrati, si risponde che un altro ha forse favorito un cognato nell’acquisto di una casa, e tutto si azzera. E a chi ad esempio parla di una casa editrice che ha cambiato proprietà perché alcuni giudici sono stati corrotti (c’è una sentenza passata in giudicato che lo stabilisce) si replica di tacere perché il cognato di Fini gira con una Ferrari e ha uno polo griffata Ralph Lauren. Ripetiamo: non stiamo prendendo le difese di Fini, ma la domanda posta l’altro giorno da alcuni suoi uomini («Se deve dimettersi Fini, che peraltro non è ancora formalmente inquisito, perché non dovrebbe dimettersi Berlusconi con tutti i procedimenti che ha avuto e che ha tuttora?») non è priva di logica.