Perché gli aiuti stranieri fanno male all’Africa
Un vasto movimento d'opinione sostiene che la pioggia di denaro aumenti la corruzione e deresponsabilizzi i governi
Da diverso tempo si discute della possibilità che per i paesi in via di sviluppo, in particolare quelli africani, gli aiuti economici provenienti dall’estero possano aver rappresentato in questi anni più un problema che una risorsa, avendo la principale conseguenza di ritardare lo sviluppo e l’autonomia di chi li riceve. Questa tesi è stata argomentata negli ultimi anni anche da commentatori tutt’altro che disinteressati alle sorti del continente africano. Ovviamente non si parla dell’aiuto privato, del lavoro che le ong o singoli volontari possono svolgere in questo o quel paese, bensì del trasferimento diretto di denaro ai paesi africani dai loro omologhi occidentali.
L’economista zambiana Dambisa Moyo ha scritto qualche anno fa un libro di grande successo intitolato Dead Aid (recentemente tradotto in italiano, La carità che uccide) che spiegava come la dipendenza dagli aiuti condanna i paesi africani a una perenne “adolescenza economica”, ritardando le prese di responsabilità dei governi. Un altro autorevole commentatore progressista, il direttore dell’edizione internazionale di Newsweek, Fareed Zakaria, ha spiegato nel libro Democrazia senza libertà che quando un governo sa di poter contare su entrate che non dipendono dalle sue attività – siano queste frutto di aiuti stranieri o di grandi risorse naturali – perde la necessità e l’interesse a perseguire un coerente e duraturo sviluppo industriale per il suo paese. Inoltre, quando queste entrate economiche finiscono nelle mani di governi poco democratici – come spesso accade con gli aiuti in Africa – i problemi si aggravano: nel migliore dei casi i governi accentrano su di sé la distribuzione delle risorse, dimenticandosi di incentivare i cittadini a produrre ricchezza, nel peggiore dei casi questo denaro favorisce la corruzione e viene utilizzato per scopi molto diversi da quelli previsti.
Questa tesi è rilanciata oggi dal sito della CNN in un articolo di Robert Calderisi, esperto di politiche di sviluppo, già alto funzionario della Banca Mondiale, autore di un libro sul tema. Calderisi non vuole tagliare del tutto gli aiuti, ed esordisce spiegando che i soli aiuti stranieri non hanno mai fatto sviluppare niente, ma se agli aiuti si accompagna un settore pubblico efficiente, una forte determinazione a combattere la povertà e una saggia amministrazione delle risorse, i risultati possono essere ottimi: è quello che è successo all’India. Perché gli aiuti funzionino, però, questi devono essere soltanto una minima parte delle risorse totali da investire nello sviluppo: se diventano l’unica fonte di ricchezza, non funzionano più.
Negli ultimi vent’anni, paesi come il Ghana, l’Uganda, la Tanzania o il Mozambico sono riusciti a capire l’importanza di guidare lo sviluppo, utilizzando gli aiuti stranieri in modo più preciso ed efficiente. La maggior parte dei governi africani rimane però bloccata in una cultura subalterna, nella dipendenza o nell’indifferenza. E questo vale sia per i molti dittatori – sei di questi sono in carica da più di 25 anni – sia per molti governi democratici che non si comportano diversamente.
La quantità di denaro versata dai paesi occidentali a quelli africani negli ultimi trent’anni è gigantesca, e sarebbe disonesto dire che l’Africa non ha fatto alcun passo avanti. Nonostante questo, però, la situazione è ancora piuttosto critica. Calderisi propone allora di utilizzare i fondi stranieri in modo diverso.
Innanzitutto meglio concentrare gli sforzi su un numero ristretto di paesi, scelti tra quelli che stanno tentando seriamente di combattere la povertà e la corruzione. Gli altri si mettano in fila o si accontentino di cifre più basse, almeno finché non dimostrano di cambiare atteggiamento nei confronti dell’imprenditoria pubblica e privata.
Anche perché gli aiuti stranieri non dureranno in eterno. Molti in Africa hanno criticato la decisione dell’amministrazione Obama di aumentare di soli due punti percentuali i finanziamenti alla lotta all’AIDS, cosa che in Uganda ha messo in crisi diversi ospedali. I funzionari statunitensi hanno però dalla loro parte un solido argomento.
Nonostante la recente scoperta di ingenti depositi di gas e petrolio, l’Uganda ultimamente si è dato a spese piuttosto bizzarre e superflue. Un governo che spende 300 milioni di dollari in aerei da combattimento può seriamente chiedere più aiuti per combattere l’AIDS?
Calderisi spiega che è bene non farsi illudere dai tassi di crescita a doppia cifra mostrati da molti paesi africani negli ultimi anni. Alcune cose stanno cambiando, e in futuro se ne vedranno gli effetti, ma fino a questo momento la crescita economica africana, basata essenzialmente sulle esportazioni di petrolio e minerali, non ha cambiato di molto le vite delle persone.
Le libertà politiche si sono ristrette invece che allargarsi, secondo l’annuale indagine di Freedom House. Un quarto dei bambini non va a scuola, quelli che ci vanno non ricevono un’istruzione di qualità. La produzione agricola, fondamentale nel ridurre la povertà, è ancora stagnante. Secondo Calderisi, più paesi dovrebbero fare come il Kenya, che cinque anni fa è riuscito a raddoppiare le sue entrate fiscali quando un ex uomo d’affari, messo a capo dell’agenzia nazionale per le tasse, si è messo a combattere seriamente l’evasione fiscale. Oggi solo il 5 per cento del bilancio del Kenya viene dagli aiuti stranieri, mentre i suoi paesi vicini arrivano fino al 40 per cento.
Una storia che è un buon esempio di quanto può essere perverso l’effetto degli aiuti stranieri, ma anche di quanto è importante l’iniziativa individuale e il ruolo delle persone nel permettere agli africani di vivere una vita migliore.