I cinque detenuti più potenti al mondo
I ritratti delle cinque persone più influenti del mondo nonostante la prigionia
di Giovanni Fontana
Foreign Policy li definisce i più potenti. Forse – proprio per la loro condizione di detenuti – alcuni di loro non possono essere considerati propriamente tali, ma è fuor di dubbio che le loro figure abbiano una notevole influenza sulle sorti dei Paesi in cui sono incarcerati, e talvolta anche all’estero. Dissidenti, prigionieri politici, terroristi, criminali, o un misto di tutto questo, si tratta dei cinque detenuti più importanti al mondo.
«Usate la vostra libertà per promuovere la nostra»
a Emma Bonino, nel 1996
Birmana, 55 anni, agli arresti dal 1990, è probabilmente la più importante dissidente al mondo dai tempi della detenzione di Nelson Mandela. Premio Nobel per la pace nel 1991, le sono permesse poche e vigilatissime uscite, per questo la si vede molto raramente in pubblico. Come segno di rispetto è detta la Dama.
Figlia di un generale del Partito Comunista Birmano, la sua famiglia è sempre stata al centro delle vicende politiche del proprio Paese. Da giovane studiò a New Delhi e poi a in Inghilterra, per poi cominciare a lavorare alle Nazioni Unite.
Ritornata in Birmania nel 1988, proprio nel mezzo delle grandi manifestazioni studentesche di protesta di quell’anno, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia in risposta alla presa di potere di una nuova giunta militare. Fu arrestata per la prima volta nel 1989 con l’accusa di costituire un «pericolo per lo stato».
Quando l’anno dopo i capi della giunta decisero di concedere libere elezioni per sancire la propria ascesa al governo, il suo partito ottenne una schiacciante vittoria con più dell’ottanta percento dei voti nonostante la sua assenza. I militari annullarono i risultati.
Negli anni che seguirono, Aung San Suu Kyi è stata più volte messa in semi-libertà, per essere però sempre ri-arrestata. Privata di quasi ogni forma di comunicazione con l’esterno, dal 2003 si trova agli arresti domiciliari, dopo che il suo mandato d’arresto è stato esteso per la terza volta: fattispecie contraria sia alle leggi birmane che a quelle internazionali.
Influenzata dal pensiero di Gandhi, si è sempre fatta promotrice del principio della nonviolenza come cardine di ogni movimento di dissenso. In conseguenza di questo atteggiamento le fu conferito, nel ’91, il Nobel per la pace come riconoscimento della “sua lotta nonviolenta per la democrazia e i diritti umani”. Ha usato il premio in denaro assegnatole dall’accademia norvegese per istituire una fondazione che vuole contribuire a incentivare l’educazione e la sanità dei giovani birmani.
Dagli arresti domiciliari a cui è costretta ha continuato a essere il punto di riferimento dell’opposizione alla dittatura. Nell’ultimo periodo le sue aperture alla giunta militare hanno fruttato solamente l’umiliazione di vedersi rifiutate le più elementari concessioni, cosa che ha portato alcuni dei suoi sostenitori a chiederle di ripensare l’intero contegno della propria protesta.
«Non sono un terrorista, ma neanche un pacifista»
sul Washington Post, nel 2002
Palestinese, 51 anni, in carcere in Israele dal 2002 dove sconta cinque ergastoli. Nonostante la condanna e la detenzione, è stato più volte menzionato quale unico possibile leader palestinese in grado di ricomporre la faida fra Hamas e Fatah. È forse il più intransigente fra le figure di spicco della politica palestinese che accettano l’esistenza di Israele.
Nato nell’attuale Autorità Nazionale Palestinese, allora occupata dalla Giordania, si arruolò ben presto con Fatah, di cui a quindici anni contribuì a fondare il movimento giovanile. A diciott’anni subì il primo arresto da parte della polizia israeliana per il suo coinvolgimento nei gruppi militanti palestinesi.
Durante la prima Intifada, nel 1987, divenne uno dei capi dell’insurrezione e fu nuovamente arrestato ed espulso in Giordania dalle autorità israeliane. Al di là del Giordano continuò a lavorare per Fatah e ad affermarsi come uno dei leader del movimento al fianco di Yasser Arafat.
Nel 1994 fu uno dei principali promotori degli Accordi di Oslo, il primo – e forse tuttora unico – passo di riconoscimento reciproco fra Israele e Palestina. Accusato per questo di compromissione con il nemico dai più oltranzisti, rispose che si trattava di un atto necessario e inevitabile. L’accordo prevedeva anche la fine del suo esilio.
Rientrato in Palestina prese la guida di Tanzim, il braccio militare di Fatah. Pochi mesi dopo venne eletto al parlamento palestinese dove iniziò una campagna contro la corruzione presente all’interno del proprio partito. Tale battaglia gli fece guadagnare credibilità fra la gente comune, ma lo portò a uno scontro sempre più acceso con il leader indiscusso di Fatah, Arafat.
Quando nel 2000 scoppia la seconda Intifada, Barghouti – dalle file dei Tanzim – dà vita alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, organizzazione riconosciuta come terroristica da USA e UE, responsabile di numerosi attacchi contro militari e civili in Israele. Per quanto Barghuthi abbia sempre detto di approvare soltanto attacchi contro obiettivi militari e nei territori occupati da Israele nel ’67, il gruppo militante ne compie sia all’interno dello Stato Ebraico che contro civili, operazioni che gli valgono una rapida ascesa nella lista degli uomini più ricercati in Israele.
Nel 2002 viene arrestato dall’esercito israeliano e condannato a cinque ergastoli per aver autorizzato alcuni di questi attentati. Durante le udienze Barghouti rifiuta di difendersi sostenendo che il tribunale israeliano non abbia diritto a processarlo. Negli anni successivi alla condanna si è formato un forte movimento che ne chiede la liberazione. In più occasioni si è fatto il nome di Barghouti come quello del principale prigioniero da liberare nell’ambito dello scambio con Gilad Shalit, il soldato israeliano nelle mani di Hamas dal 2006.
Dalla detenzione Barghouti continua a gestire le proprie attività politiche per telefono ed è stato più volte rieletto in absentia al parlamento palestinese. È per questo che, nonostante la pena potenzialmente inestinguibile, Barghouti viene spesso citato – sia nella comunità internazionale che in alcuni settori della società israeliana – come unico possibile leader in grado di poter ricomporre tutte le frazioni della società palestinese, e la lotta intestina fra Hamas e Fatah, sotto un’unica egida.
«Sicuramente gli americani mi uccideranno in carcere»
nelle sue ultime volontà, 1998
Egiziano, 72 anni, in carcere negli Stati Uniti dal 1993 per il coinvolgimento in diversi atti terroristici. Ritenuto l’ispiratore del primo attentato al World Trade Center, è considerato il precursore di Bin Laden e la sua guida spirituale, oltre che l’iniziatore delle strategie terroristiche poi utilizzate da al-Qaida. In America è soprannominato “lo Sceicco Cieco”.
Nei primi anni di vita perse la vista a causa del diabete, studiò una versione del Corano in Braille – il codice di scrittura per non vedenti – e si laureò in studi coranici all’università al-Azhar del Cairo, diventando ben presto una figura di riferimento dell’oltranzismo islamico sunnita.
Estensore di diverse fatwa nei confronti di chi avesse tradito – o offeso – l’Islam, assunse il ruolo di guida dell’al-Jama’a al-Islamiyya, gruppo terrorista islamico sulla scorta dell’ideologia religiosa dei Fratelli Mussulmani. Fu arrestato e torturato in Egitto per l’assassinio del presidente Sadat, colpevole – a suo dire – di essersi fatto beffe dei principî islamici nel firmare la pace, e il riconoscimento reciproco, con Israele.
Scagionato delle accuse di aver partecipato direttamente all’uccisione, fu espulso dal Paese con il pretesto di essere stato il “mandante ideale” dell’omicidio del Presidente. Rifugiatosi in Afghanistan, strinse rapporti con il Maktab al-Khidamat di Osama bin Laden, gruppo islamista impegnato nella guerriglia contro i sovietici che confluirà poi in al-Qaida.
Nel 1990 partì per gli Stati Uniti, a suo dire luogo d’origine di ogni male. Entrato negli USA con un visto turistico, l’autorità americana per l’immigrazione gli concesse lo status di residente permanente in qualità di leader religioso. Qui iniziò a predicare in diverse moschee newyorkesi l’annientamento dell’Occidente, patria di “sionisti, comunisti e colonialisti” e l’uccisione di tutti gli ebrei.
Fu arrestato nel 1993, e condannato all’ergastolo tre anni dopo con l’accusa di voler organizzare una guerra di terrorismo urbano in alcune grandi zone metropolitane degli Stati Uniti. Il piano considerato dai giudici il più impressionante fu quello di piazzare cinque bombe, da far esplodere nell’arco di dieci minuti, in luoghi chiave dell’area urbana di New York. Si stima che questo attentato – se non fosse stato sventato – avrebbe potuto causare più vittime di quello dell’undici settembre di otto anni dopo.
Rahman ha sempre usato ogni processo in cui è stato imputato per lanciare anatemi e dichiarazioni di guerra, poi messe in pratica dai suoi seguaci in giro per il mondo. Nel 2005 il suo avvocato fu arrestato per aver fatto da punto di raccordo nelle comunicazioni fra il proprio cliente e diversi gruppi islamisti. Questi casi sono stati citati dai sostenitori della necessità che i terroristi siano processati, a porte chiuse, da tribunali militari.
A dispetto di quello che disse del trattamento che gli sarebbe stato riservato in carcere dagli americani – e dopo aver tentato più volte di attentare alla propria salute – è tuttora in vita.
«Certamente Putin non mi trova simpatico»
alla CNN, 2010
Russo, 47 anni, detenuto dal 2003 in Siberia, è stato l’uomo più ricco di Russia prima che la sua compagnia petrolifera dichiarasse bancarotta. È stato arrestato per frode ed evasione fiscale, ma i motivi della sua detenzione sono di natura politica ed economica. Negli ultimi anni, anche per il suo potere economico, è sempre più considerato un punto di riferimento dell’opposizione a Putin.
Funzionario comunista nella Russia sovietica, si riciclò come imprenditore subito dopo le liberalizzazioni concesse dalla Perestroika di Michail Gorbačiov. Le sue amicizie all’interno del Partito Comunista gli fruttarono trattamenti di favore nell’avvio delle sue attività commerciali.
Aprì un locale, poi una società di import-export con cui si arricchì al punto da poter aprire la Menatep, una delle prime banche private in Russia. Con il denaro ottenuto attraverso le privatizzazioni – e i suoi legami con diversi membri chiave della Russia di Elstin, nella quale occupò anche il posto di vice-ministro dell’energia – il suo spirito imprenditoriale si fece sempre più aggressivo, culminando nell’acquisizione – favorita dal Cremlino – di Yukos, azienda petrolifera che fra la fine degli anni ’90 e il 2003 conquistò sempre maggiori fette di mercato.
Con l’accrescere del proprio potere economico, Chodorkovskji cominciò a nutrire ambizioni politiche in prima persona, anche a causa dei non più così saldi legami con il potere politico dopo l’ascesa al potere di Vladimir Putin. Durante il periodo precedente le elezioni del 2003, Chodorkovskji cominciò a finanziare diversi partiti di opposizione a Putin, guadagnandosi l’inimicizia dell’allora presidente russo.
Mentre si discuteva la fusione fra Yukos e Sibnet, altra azienda molto importante nel campo energetico oggi nota come Gazprom, Chodorkovskji fu arrestato con le accuse di frode, peculato ed evasione fiscale. La fusione fra Yukos e Sibnet, che sarebbe risultata nel più grande gruppo energetico al mondo dopo ExxonMobil, fu così bloccata per via giudiziaria.
Chodorkovskji si dichiarò subito vittima di un processo politico, così come sostenuto anche da numerose organizzazioni indipendenti. Diverse associazioni per i diritti umani, oltre che il Dipartimento di Stato statunitense, hanno definito il processo iniquo e interessato: pressioni governative, accuse fabbricate a tavolino, sedute mosse nelle località più remote per tenere lontani i giornalisti, avrebbero condizionato il regolare svolgimento dei dibattimenti. La stessa sentenza del processo fu letta ad alta voce dai giudici – come d’uso in Russia – nella maniera più lenta possibile per far scemare l’interesse degli ascoltatori, risultando in quindici giorni di declamazione.
Chodorkovskji fu condannato a nove anni di lavori forzati in Siberia, in un campo di lavoro noto al tempo dell’Unione Sovietica per l’impossibilità di uscirne vivi. La pena fu ridotta a otto anni in un appello lampo celebrato in poche settimane per impedire al magnate, condannato soltanto in primo grado, di candidarsi alle elezioni e ottenere l’immunità parlamentare.
Proprio in prossimità del termine della pena per Chodorkovskji, prevista per la metà del 2011, un’altra causa – questa volta per appropriazione indebita e riciclaggio di denaro sporco – gli è stata intentata da un pubblico ministero che ha chiesto come pena ulteriori ventidue anni di carcere. Il processo è ancora in corso, e nessun verdetto è ancora stato rilasciato.
Nel frattempo Chodorkovskji, forse suo malgrado, è diventato il simbolo dell’opposizione democratica al regime di Putin e Medvedev. Alcuni media internazionali hanno parlato di una figura cambiata dalla detenzione e dalle lotte politiche che sono state mosse ai suoi danni, trasformandolo da un oligarca senza scrupoli a un prigioniero politico. Egli stesso, nei propri scritti dalla prigionia, ha parlato di un notevole cambiamento che lo ha portato a comprendere la necessità di un svolta umanitaria e democratica in Russia.
«Nel 2008 ne farò una delle prime 500 aziende al mondo»
a proposito di Gome, 2007
Cinese, 41 anni, è in carcere dal 2008. Incriminato per corruzione, concorrenza sleale e commercio illegale, la sua condanna esemplare a quattordici anni di carcere – per quello che era l’uomo più ricco dell’intera Cina – è considerata un avvertimento agli imprenditori che operano sul mercato cinese.
La storia di Huang – come d’uso in cinese, il cognome si scrive prima del nome – è in qualche modo simile a quella di Chodorkosvky: a ventisette anni apre con il fratello una piccola attività chiamata Gome, dalla quale comincia la sua scalata.
L’azienda vende inizialmente capi di vestiario, poi si converte anche alle apparecchiature elettriche. All’inizio degli anni ’90 è uno dei primi cinesi a pubblicizzare la propria attività, nel frattempo ingranditasi, sui media – un fenomeno piuttosto raro nella Cina del tempo, con le grandi capitalizzazioni ancora a venire.
Nel frattempo Huang stringe legami con importanti gruppi d’investimento cinesi e nel ’97 diventa amministratore delegato della Pengrum Holding, che farà capo all’Eagle Investment Group.
Sfruttando questi contatti, allarga a sempre più settori l’attività della sua Gome, che diventa un colosso dell’industria cinese. Le riuscite manovre economiche lo fanno diventare – a metà degli anni 2000 – l’uomo più ricco della Repubblica Popolare Cinese.
Nel 2008 viene però arrestato dalle autorità cinesi che gli contestano numerosi reati economici. Sono in pochi a credere Huang del tutto innocente, dato che lo sfruttamento delle zone grigie della legislazione – così come il pagamento di tangenti – è pratica molto comune, quasi obbligata, fra gli imprenditori cinesi.
Ciò che ci si domanda è perché sia stato scelto proprio, o soltanto, Huang come obiettivo da colpire. Chi conosce il personaggio, parla di rapporti sbagliati su cui Huang avrebbe puntato, e lo dipinge come un eccellente imprenditore ma un pessimo politico, che non è in grado di mantenere relazioni con le persone giuste nelle posizioni di potere.
Dopo la condanna a 14 anni di carcere – comprensiva anche della confisca di suoi beni pari a circa venti milioni di euro – Huang si è dimesso dalla guida di Gome, ma continua a mantenerne la maggioranza del pacchetto azionario, combattendo – dal carcere – una battaglia legale e azionaria contro l’azienda americana Bain Capital per riacquisirne il controllo. La stessa azienda, pochi giorni fa, gli ha fatto causa per danni, a seguito delle ingenti perdite economiche causate dall’arresto dell’ex presidente.