Il Giappone ha chiesto scusa ai coreani
Cento anni fa i giapponesi iniziarono una dura occupazione della Corea durata fino alla seconda guerra mondiale
Oggi il primo ministro giapponese Naoto Kan ha offerto le scuse del proprio governo e dell’intera nazione per il periodo di occupazione della Corea iniziato cento anni fa e terminato con la resa del Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale. Kan si è rivolto ai coreani per scusarsi degli «enormi danni e delle sofferenze causate negli anni della colonizzazione». Per ragioni diplomatiche il messaggio è sostanzialmente indirizzato alla Corea del Sud, dove il Giappone ha rapporti meno turbolenti rispetto alla impenetrabile e bellicosa Corea del Nord. Il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-bak, si è sentito al telefono con il primo ministro giapponese per ringraziarlo e invitarlo a tradurre in atti concreti le scuse per riparare agli errori commessi ai tempi dell’occupazione.
Sono passati più di sessant’anni dalla fine dell’occupazione giapponese in Corea, ma il ricordo delle angherie subite è ancora presente tra i coreani. Dal 1938 le autorità giapponesi misero ai lavori forzati circa 750.000 persone, per sostituire nelle fabbriche e nelle miniere del Giappone gli uomini partiti per il fronte. Il numero di coreani in Giappone superò i due milioni alla fine della guerra e si stima che quasi un terzo delle vittime di Hiroshima e Nagasaki fossero lavoratori forzati coreani.
Chi rimase in Corea non ebbe spesso una sorte migliore. Negli anni della guerra la politica coloniale divenne molto rigida: persone non gradite, presunti criminali e semplici ribelli venivano condannati e imprigionati anche con banali pretesti. Migliaia di ragazze furono deportate al fronte e rinchiuse nei bordelli dove venivano stuprate dai soldati. Non ci sono stime ufficiali perché il governo giapponese non vuole aprire i propri archivi, ma secondo gli storici il fenomeno interessò almeno 50mila donne, mentre altre fonti ipotizzano 300mila deportazioni per diventare “donne di conforto”.
Politici e opinione pubblica nella Corea del Sud chiedono da tempo al governo giapponese una completa ammissione di responsabilità, l’apertura degli archivi e una qualche forma di risarcimento. Kan si è impegnato a riportare in Corea alcune opere d’arte e alcuni documenti sottratti durante il periodo coloniale, ma non ha fatto alcun riferimento alla possibilità di altri atti concreti per cercare di chiudere il capitolo dell’occupazione.
Perché il Giappone occupò la Corea
Nei primi anni del Novecento, la Russia aveva cercato di rafforzare la propria presenza nell’Asia nord orientale, stanziando nuove truppe in Manciuria. Temendo che i russi potessero espandere il loro dominio nella penisola coreana, nel 1904 il Giappone dichiarò guerra, sconfiggendo la Russia l’anno successivo e ottenendo che nel trattato di pace la Corea diventasse un protettorato giapponese. La famiglia imperiale giapponese cercò di cementare ulteriormente i rapporti integrando la famiglia reale coreana e, risolti alcuni screzi nel 1907 con il sovrano coreano che affermava di non aver firmato il trattato, il Giappone avviò una progressiva intensificazione delle attività di amministrazione diretta del protettorato.
In pochi anni la Corea subì un processo di “giapponesizzazione”, con i giapponesi che ottennero il controllo delle amministrazioni e dei tribunali. Anche la polizia e le pene furono giapponsenizzate, mentre l’esercito coreano fu sciolto. Il processo non fu certo indolore e portò a numerose ribellioni, guidate in genere da gruppi giovanili e dai responsabili delle scuole confuciane. Una sorta di esercito partigiano cercò anche di contrastare l’esercito degli occupanti, ma con scarso esito.
L’assassinio del principe giapponese Ito Hirobumi da parte di un nazionalista coreano nell’ottobre del 1909 offrì l’occasione perfetta per i giapponesi per ottenere che in Corea venisse collocato un Governatore nominato direttamente dalle autorità del Giappone. La Corea divenne così nel 1910 una provincia giapponese a tutti gli effetti con il nome di Chosen.
La presenza militare nel paese venne rinforzata e ai cittadini furono negati numerosi diritti come la libertà di stampa e i diritti di riunione e di organizzazione. I giapponesi imposero lo scintoismo come religione di stato e il calendario tradizionale cinese fu sostituito con quello gregoriano, così da uniformare i sistemi di datazione. La lingua giapponese divenne praticamente di colpo la lingua nazionale da insegnare nelle scuole e da utilizzare nella pubblica amministrazione. In compenso il sistema scolastico giapponese era più aperto di quello elitario coreano, e consentì dunque di elevare i livelli di alfabetizzazione nel paese.
In seguito alla morte dell’ultimo sovrano coreano, nel 1919 si verificarono numerose manifestazioni di protesta contro i giapponesi che portarono a una dichiarazione di indipendenza. Le autorità giapponesi decisero di reprimere con decisione le sommosse, causando la morte di almeno 550 persone. A Shangai alcuni esuli costituirono un governo coreano, che nella Seconda guerra mondiale si sarebbe poi schierato con gli Alleati.
Per evitare altri disordini e riportare la calma, il governo di Chosen decise di allentare la pressione concedendo alcune aperture ai coreani. La polizia militare giapponese fu sostituita con una polizia civile, l’insegnamento del coreano fu nuovamente consentito e si registrarono anche alcune timide aperture sul fronte della libertà di stampa.
A partire dalla seconda metà degli anni Trenta la Corea subì un nuovo irrigidimento delle politiche di occupazione. I primi venti di guerra iniziavano a soffiare nel Pacifico e il Giappone voleva mantenere l’ordine e al tempo stesso motivare i coreani, convincendoli di “essere una sola cosa” con i giapponesi. Le famiglie coreane furono spinte a cambiare i loro cognomi per adottare quelli giapponesi e la lingua coreana fu bandita totalmente anche dalle conversazioni private. Il progetto di rendere i coreani una sola cosa con i giapponesi fallì con la fine della Seconda guerra mondiale, quando il Giappone fu costretto a scorporare ed abbandonare Chosen.