La versione di Julian Assange
Il fondatore di Wikileaks, intervistato dall'Observer, risponde alle critiche ricevute per aver diffuso i documenti top secret sulla guerra in Afghanistan
Il presidente afghano Hamid Karzai lo ha definito “irresponsabile”. Il ministro della difesa statunitense, Robert Gates, ha detto che le sue mani “sono sporche di sangue”, la stessa cosa è stata ripetuta dal capo di stato maggiore Mike Mullen. L’amministrazione americana lo ha accusato di mettere a repentaglio la vita di diversi cittadini afghani, che collaboravano segretamente con gli Stati Uniti per combattere i talebani e i cui nomi sono riportati sui documenti top secret che Wikileaks ha reso pubblici la settimana scorsa: i cosiddetti “diari di guerra”.
Parliamo di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, il regista di quella che i giornali di mezzo mondo hanno descritto come la più massiccia fuga di informazioni riservate di tutti i tempi. Oggi l’Observer, il supplemento domenicale del Guardian, gli fa una lunga intervista, per chiedergli conto delle accuse che gli sono state rivolte in questi giorni e di come Wikileaks possa cambiare il settore dell’intelligence. La giornalista dell’Observer, Carole Cadwalladr, nota immediatamente un aspetto singolare della vicenda: tutti ce l’hanno con Assange, ma il fondatore di Wikileaks non è la persona che ha fatto trapelare le informazioni riservate. Lui è solo la persona che le ha diffuse e pubblicate. Se una volta in presenza di casi simili la prima preoccupazione era trovare il cosiddetto whistleblower, la fonte delle informazioni, ora è fermare il mezzo tecnologico che permette alle informazioni di arrivare al mondo. Wikileaks, in pratica.
Quando la giornalista incontra Assange, lui è nervoso e agita una copia del Times. “Hai visto quante stronzate?”, dice. “Hai visto pagina 13? Secondo te dovrei fargli causa? Sarebbe stupido ma mi viene la tentazione”. Assange fa riferimento a un pezzo titolato: “La lista dei talebani: il fondatore di Wikileaks dice di aver fatto bene”. Poi una grande foto di Assange e poco sotto un altro titolo: “Un uomo nominato nei documenti è già morto”. L’accusa mossa dal giornale – manco molto subdolamente – è che l’uomo sia stato ucciso a causa della pubblicazione del suo nome nei diari della guerra. Ma l’uomo in realtà è stato ucciso due anni fa.
“Guarda quanto bisogna leggere prima che venga detto che l’uomo è morto due anni fa. Non è nel primo paragrafo. Non è nel secondo, nel terzo, nel quarto, nel quinto. Se non arrivi al sesto paragrafo, non lo sai”
La giornalista incalza: sì, il Times ha sicuramente esagerato, però la questione merita una risposta. La pubblicazione dei documenti mette a rischio le vite degli informatori? Assange ci gira un po’ intorno. Prima dice che si preoccupa molto di non mettere a rischio le vite di afgani innocenti, e dice che per questo ci sono 15 mila files in possesso di Wikileaks che non sono stati diffusi alla stampa. Poi dice che se qualcuno dovesse essere stato messo in pericolo, allora “rivedremo le nostre procedure”. Che è una cosa che può andare bene per il futuro, ma per i nomi già pubblicati potrebbe essere troppo tardi. La risposta di Assange si fa evasiva.
“Beh, tutto può succedere e finora non è successo niente. E non abbiamo intenzione di smettere di fare cose che riteniamo giuste perché ogni tanto possono esserci dei danni. In quattro anni nessuno ha mai subito danni fisici a causa delle nostre attività. Ma abbiamo contribuito a far cadere governi e cambiare le leggi. Sono gli Stati Uniti a essere stati incredibilmente disattenti con la segretezza delle loro fonti. Quel materiale era nella disponibilità di tutti i soldati e le società di sicurezza privata in Afghanistan. Dovete incolpare loro, non noi”
La spiegazione di Assange non è molto convincente. Il fatto che quelle informazioni fossero in possesso ai soldati statunitensi non rende automatico che fossero disponibili anche ai talebani: in ogni caso, la loro diffusione su scala globale non ha certamente giovato al mantenimento della loro sicurezza. Inoltre, l’oscuramento dei nomi non avrebbe ridotto di un briciolo la portata delle informazioni diffuse da Wikileaks sull’esercito americano, sul Pakistan, sull’andamento della guerra in Afghanistan. Insomma, la più forte delle accuse che vengono rivolte ad Assange poteva essere facilmente evitata, e senza grandi costi.
La giornalista dell’Observer chiede poi ad Assange che tipo di cambiamenti è in grado di generare la presenza di Wikileaks sulla scena politica globale. Cosa succede se non sono più i governi eletti democraticamente a decidere cosa rendere pubblico e cosa no, bensì un’organizzazione privata caratterizzata da un’estrema apertura ma anche dalla presenza di una sola personalità carismatica e dirigente, quella dello stesso Assange?
“Noi stiamo creando uno spazio che possa permettere al giornalismo di tornare a essere quello che era una volta”
Carole Cadwalladr descrive il modo in cui Assange le era stato descritto prima di incontrarlo. Un suo ex collaboratore dice che è “probabilmente la persona più intelligente con cui abbia mai lavorato”. David Leigh, il giornalista del Guardian che si è occupato della supervisione dei documenti forniti da Wikileaks prima della loro pubblicazione, ha detto che Assange ha la mentalità di un hacker, “un genere psicologico ben preciso”. E che non gli manca il fascino, anche se a volte sembra quasi autistico. Altri iniziano a diffondere sul suo conto le classiche storie da leggenda: dorme due ore a notte, mangia in tutto due panini al giorno.
Quando gli viene chiesto della moralità delle sue azioni, lui racconta la storia delle elezioni del 2007 in Kenya, stravolte proprio grazie a un documento diffuso da Wikileaks.
Il documento mostrava la corruzione di Daniel Arap Moi, presidente del paese dal 1978 al 2002. I keniani presero nota e la corruzione diventò il tema centrale della campagna elettorale, che d’un tratto si fece pure piuttosto violenta. “1300 furono uccise, 350 mila persone furono costrette a scappare. È successo anche a causa della nostra attività”, dice Assange. “Dall’altro lato, i keniani avevano diritto ad avere quelle informazioni, e in Kenya ci sono 40 mila bambini che muoiono di malaria. E molti altri muoiono a causa della valutazione della moneta keniota”
Insomma, si fa quello che si ritiene giusto, senza preoccuparsi molto delle conseguenze. “Si comincia dalla verità. La verità è l’unica strada per arrivare da qualsiasi parte. Qualsiasi decisione venga presa sulla base di informazioni sbagliate o incomplete”, dice Assange, “non può portare a niente di buono”.
Un altro aspetto interessante della vicenda Wikileaks è il modo in cui riesce a godere degli stessi vuoti legislativi che per anni hanno avvantaggiato le grandi corporation, la cui natura multinazionale rendeva complicata l’applicazione delle leggi di questo o quel paese.
“Noi non abbiamo preoccupazioni riguardo la sicurezza nazionale. Noi ci preoccupiamo degli esseri umani”, dice Assange. I suoi server sono collocati in diversi paesi, il suo quartier generale non è da nessuna parte. Quindi Wikileaks è invulnerabile? “Certo che no. Abbiamo già ricevuto oltre cento attacchi legali. Abbiamo vinto quasi tutte le volte. Noi operiamo all’interno dello stato di diritto”.
David Leigh, comunque, considera piuttosto irrilevante la discussione sul fatto che le azioni di Assange siano buone o cattive. “Se non lo facesse lui, lo farebbe qualcun altro: Wikileaks è un’organizzazione straordinaria, ma è l’effetto di un fenomeno ben preciso, non la causa. E il fenomeno è tecnologico. È a causa della tecnologia che esistono questi enormi database, ed è a causa della tecnologia che questi database possono trapelare con questa facilità. E se qualcosa può trapelare, trapela”.