I delitti di Duch, condannato a 35 anni
Kang Kek Lew, conosciuto con il nome di guerra Duch, è stato giudicato per i crimini contro l'umanità commessi durante il regime
Duch passerà i prossimi 35 anni in prigione per i crimini commessi durante il regime dei Khmer Rossi in Cambogia negli anni Settanta. La condanna di Kang Kek Lew – Duch era il suo nome di guerra – è stata emessa a Phnom Penh da un tribunale misto gestito dalle autorità cambogiane e dall’ONU per perseguire le azioni di alcuni dirigenti dell’organizzazione politica comunista che tra il 1975 e il 1979 portò allo sterminio di centinaia di migliaia di persone, dando vita a uno dei regimi più violenti del ventesimo secolo.
Duch ha 67 anni ed è il primo processato tra i leader dei Khmer Rossi. Dopo la caduta del regime nel 1979, l’uomo scomparve nel nulla e fu dato per morto. Assunse il nome Haing Pin, lavorò presso l’Istituto di lingue straniere di Pechino e offrì la propria collaborazione alle dipendenze della segreteria di Pol Pot. Verso la fine degli anni novanta il fotoreporter Nic Dunlop e il giornalista Nate Thayer scoprirono la vera identità di Duch, che accettò infine di concedere loro un’intervista. Ormai smascherato, Kang decise di arrendersi alle autorità cambogiane.
Il tribunale congiunto ha deciso di condannare Duch giudicandolo colpevole di omicidio, tortura e crimini contro l’umanità nel periodo della gestione del carcere di Tuol Sleng. L’uomo ha ammesso di aver supervisionato le modalità di tortura e di aver autorizzato negli anni della sua direzione l’uccisione di almeno 17 mila prigionieri. Da qualche anno convertito al cristianesimo, l’ex leader comunista ha espresso rimorso per le vittime, ma ha anche sostenuto di aver agito rispondendo a ordini precisi che se non fossero stati osservati avrebbero portato alla sua uccisione.
Tuol Sleng in lingua khmer significa “collina degli alberi velenosi” e prima della conversione in carcere era un edificio scolastico di Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Nel 1975 i cinque edifici del complesso furono trasformati in un carcere e in un’area attrezzata per effettuare gli interrogatori. La struttura assunse il nome di Ufficio di Sicurezza 21 e in pochi anni sarebbe diventata il simbolo del regime sanguinario dei Khmer Rossi. Si stima che in circa cinque anni di attività le piccole celle del carcere ospitarono 17mila persone provenienti da tutto il paese e solitamente accusate di tradimento.
Duch gestiva con estrema meticolosità il carcere: ogni nuovo prigioniero veniva schedato e fotografato all’ingresso della prigione, veniva costretto a fornire un breve resoconto fotografico e veniva privato di qualsiasi bene. I prigionieri assegnati alle celle più piccole venivano incatenati ai muri, mentre nelle celle più grandi i prigionieri erano incatenati assieme. Le pene corporali erano all’ordine del giorno e le condizioni igieniche erano pessime.
Nel corso degli anni Duch autorizzò migliaia di interrogatori nei quali venivano utilizzati l’elettroshock e vari strumenti di tortura per estorcere le confessioni ai prigionieri. Le sevizie si rivelavano spesso letali, ma l’obiettivo principale dei Khmer Rossi era quello di ottenere informazioni prima di uccidere i prigionieri. Terminati gli interrogatori, i prigionieri venivano poi condotti al campo di sterminio di Choeung Ek, dove venivano uccisi barbaramente con oggetti contundenti come martelli, picconi, sbarre di ferro e machete. Il regime riteneva le pallottole un bene troppo prezioso per essere utilizzato per le esecuzioni.
Kang teneva numerosi registri e diari sulle attività nel carcere S-21, testimonianze che sono state in parte ritrovate e che sono servite all’accusa per dimostrare la colpevolezza dell’ex responsabile della prigione. Dai documenti emerge un Duch spietato, perfettamente a proprio agio nell’ordinare l’uccisione di centinaia di persone. Un giorno, si legge in uno dei diari, una guardia chiese al responsabile del carcere che cosa dovesse fare con cinque ragazzi e tre ragazze accusati di tradimento. Duch rispose senza esitazione di ucciderli tutti «dal primo all’ultimo».
Dei 17 mila prigionieri di Tuol Sleng si stima che siano sopravvissute solamente quattordici persone. Quelle ancora in vita sono tre e chiedono giustizia per le terribili vicende vissute in carcere. I pochi che sopravvissero riuscirono ad aver salva la vita grazie alle loro capacità, ritenute utili dai carcerieri. Vann Nath, per esempio, riuscì a sopravvivere perché era un valido pittore e fu incaricato di eseguire alcuni ritratti di Pol Pot. Anni dopo la fine del regime, l’artista ha realizzato alcune opere per raccontare anche graficamente gli eventi di Tuol Sleng.
In più di una occasione, Duch ha accusato il numero due del regime dei Khmer Rossi, Fu Nuon Chea, di essere stato la mente dietro le violenze e le uccisioni della prigione. Nuon Chea avrebbe chiesto a Kang di massacrare i prigionieri anche senza interrogatori quando il carcere raggiunse la saturazione. E sempre Nuon Chea avrebbe poi richiesto a Duch di sterminare gli ultimi prigionieri del campo prima dell’arrivo delle forze vietnamite, che invasero la Cambogia per porre fine al regime dei Khmer Rossi. Nuon Chea degradò Kang con l’accusa di non aver cancellato tutte le prove e i documenti sull’S-21.
Nonostante la condanna emessa preveda 35 anni di prigionia, Duch dovrà scontarne 30 perché per cinque anni fu detenuto illegittimamente dall’esercito cambogiano. Il tribunale sostenuto dall’ONU dovrà occuparsi degli altri leader dei Khmer Rossi ancora in vita, come il numero due Nuon Chea, l’ex presidente Khieu Samphan, l’ex ministro per gli affari esteri Ieng Sary e la sua moglie Ieng Thirith, ex ministro degli affari sociali.