La morte come possibilità
Mauro Covacich sul Corriere riflette su Duisburg e su quando si comincia a essere prudenti, nella vita
Tra i diversi tentativi di spiegare e raccontare la strage alla Love Parade di sabato sui quotidiani italiani – molti vacui, di maniera, soliti sociologi al telefono, e una certa dose di vade-retro-Satana – c’è un punto di vista bello e sincero di Mauro Covacich sul Corriere di oggi: un pezzo che altri avrebbero scritto babbione e paternalistico ma Covacich no. È il punto di vista di chi si accorge di come sembri ieri che ci si prendevano dei rischi per niente, da giovani, che ci si metteva in situazioni oggettivamente pericolose: e poi qualcosa cambia, in ciascuno di noi.
Penso alla tragedia di ieri tornando a casa dal mare con lo scooter. Prendo le curve con precauzione. Prima di cambiare corsia controllo cento volte nello specchietto. Ovviamente indosso il casco ben allacciato sotto il mento, eppure guardo in continuazione il tachimetro con l’impressione che la velocità sia sempre troppo elevata. Da quand’è che guido così? Qual è stato il giorno da cui sono uscito così consapevole, così definito, e vecchio? Ricordo le serpentine indiavolate tra le macchine, i semafori bruciati, le pieghe con il cavalletto che grattava sull’asfalto, le impennate con il vento nei capelli. Cos’era quell’energia che mi elettrizzava e mi spingeva a sfidare i pericoli con la disinvoltura di un eroe acheo (o di un cartone animato) e che mi avrebbe fatto entrare senza la minima esitazione dentro quel tunnel affollato dentro il quale già arrivava il richiamo della musica che avrei trovato appena al di là? Sapevo che gli esseri umani morivano, mai però avrei potuto pensare che succedesse ame. Come Markus, come Christa, anch’io escludevo la morte dalle mie possibilità. La morte non rientrava nel mio ordine di idee. Sì, certo, c’era gente che moriva, ma a me non poteva succedere. Io avanzavo nel fluire pulviscolare del tempo semplicemente invulnerabile. E questa certezza rendeva me e tutti quelli come me — tutti noi, figli — tedofori di una fiamma abbacinante che sventolava sulle nostre teste come avrebbe fatto con le generazioni future, nutrendosi di noi a nostra insaputa e restituendoci una luce spavalda, ottusa e incantevole, come solo la vita sa esserlo.
Di solito viene chiamata incoscienza, ma non credo si tratti di questo. Quell’in privativo non si addice a un simile stato, che sembra piuttosto una condizione di potenza pura, solo positiva, uno slancio non ancora frenato dal fardello dell’esistenza.
Cosa succede dopo?, si chiede Covacich. Succede che arriva l’angoscia. Ma prima, non c’è molto da fare.
Il sentimento nobile del nostro saperci mortali arricchirà in seguito la nostra comprensione del mondo, ma ci farà perdere più di qualche tacca in termini di sintonia, di intesa col gioco insensato delle cose. Le cose giocano con noi in continuazione, ci mettono davanti un tunnel affollato, un cerchio di transenne e, poco più avanti, appena poco più avanti, una festa piena di bella gente. Qui c’è il tunnel, basta attraversare questo. Cosa può mai succedermi in un tunnel stretto, buio, gonfio di urla assordanti? Cosa potrà mai succedere a me?
Ricordo ancora la testimonianza di una madre che aveva perso il figlio sedicenne durante l’assedio di Sarajevo. Il ragazzo, in barba ai cecchini, attraversava ogni pomeriggio l’intera città per raggiungere i suoi amici in un campo da basket vicino allo zoo. Ogni pomeriggio rischiava la vita per andare a giocare. La madre stava in pena, ma non lo fermava, sapeva di non poterlo fermare. Si accontentava di mettergli di nascosto nella tasca dei jeans un bigliettino col nome e l’indirizzo. Quel giovane uomo invulnerabile era la sua cosa più preziosa, ed è così che ha potuto riconoscerne i resti dopo la granata.