L’avamposto Keating
La storia del "Combat Outpost Keating", l'avamposto americano nelle montagne dell'Afghanistan
Tra i documenti diffusi da Wikileaks e pubblicati oggi da New York Times, Guardian e Spiegel, ce n’è uno che illustra in maniera esemplare l’evoluzione della guerra in Afghanistan. È il rapporto sul “Combat Outpost Keating”, un avamposto militare dell’esercito americano nelle montagne dell’Afghanistan. Il New York Times ne racconta la storia in un lungo articolo.
L’avamposto fu creato nel 2006 nel distretto di Kamdesh, provincia del Nuristan, al confine col Pakistan: un’area di dirupi rocciosi, foreste e canyon, con una popolazione molto sospettosa verso gli stranieri. Le truppe furono incaricate di trovare alleati tra la popolazione locale e metterli in contatto con il governo centrale di Kabul, nel tentativo di opporsi ai ribelli.
L’avamposto era piccolo e isolato, parte di una rete di basi militari americane create lontano dalle principali città, e collocato all’interno di una zona sospettata di essere usata come corridoio dalle forze insorgenti. I primi tempi le cose sembravano andare bene. Nelle cronache redatte dai soldati americani si parla di come si stesse creando un reciproco rapporto di fiducia e amicizia con la popolazione locale. Poi però la situazione iniziò a peggiorare.
La strada che conduceva all’avamposto poteva essere controllata dall’alto dai ribelli e il traffico era quindi molto vulnerabile alle imboscate. La maggior parte dei trasferimenti delle truppe e dei trasporti di scorte venivano effettuati con gli elicotteri, che a loro volta erano esposti ai colpi di arma da fuoco provenienti da terra. E gli elicotteri da combattimento, che avrebbero potuto rispondere al fuoco nel caso in cui l’avamposto fosse stato attaccato, erano di base a Jalalabad, a più di mezz’ora di volo. Non passò molto tempo prima che l’entusiasmo iniziale sull’amicizia con la popolazione locale lasciasse il posto alla consapevolezza che i nemici controllavano quasi tutto il territorio intorno.
Allo stesso tempo i soldati afghani che operavano a fianco dell’esercito americano iniziarono a dare i primi segnali di scarsa affidabilità. Gli americani si accorsero che molti si lamentavano di non essere pagati abbastanza e che altri si rifiutavano di continuare a lavorare: i ribelli erano riusciti progressivamente a isolare l’avamposto, sia fisicamente che socialmente.
17 febbraio 2007: Uomini armati con indosso uniformi dell’esercito afghano hanno assalito tre camion dell’esercito che avevano appena lasciato rifornimenti alla base. Gli autisti sono stati risparmiati, ma uno è stato ferito da una scheggia di granata. Agli altri hanno tagliato le orecchie.
29 aprile 2007: Uomini che si identificano con il nome “Noi Mujahdeen” hanno lasciato alcune lettere nella moschea notte tempo. Le lettere scritte a mano protestano contro la presenza dei soldati americani e contro i mullah che si sono venduti e tutti quelli che hanno collaborato con loro. C’è un elenco con i nomi delle persone che hanno lavorato nell’avamposto come guardie. «Queste persone sono odiate da Dio», c’è scritto «presto inizieremo le nostre operazioni».
Il giorno dopo sei ribelli attaccarono la macchina di Fazal Ahad, il capo dell’assemblea locale che aveva iniziato a cooperare con l’esercito americano sulle questioni di sicurezza. I ribelli lo presero e dissero agli altri che erano con lui che potevano scegliere se restare e morire o se andarsene e vivere. Appena se ne furono andati, si sentì uno sparo. Fazal Ahad era morto.
La situazione continuò a peggiorare e l’avamposto si trasformò progressivamente in una postazione di difesa tenuta in piedi solo grazie ai rifornimenti degli elicotteri che ormai volavano solo di notte. La popolazione locale era spaccata a metà e i ribelli iniziavano a compiere le prime rappresaglie contro i civili che appoggiavano gli americani. Nell’estate del 2009, l’allora comandante delle truppe in Afghanistan Stanley A. McChrystal riconsiderò la proposta di dividere le forze e distribuirle in remoti avamposti in giro per il paese. La nuova strategia prevedeva di concentrare le forze armate solo dove potevano avere risultati più efficaci: “Combat Outpost Keating”, insieme a molti altri avamposti nella zona est dell’Afghanistan, doveva essere chiuso. Prima dell’autunno, gli americani avevano già iniziato a ritirarsi da buona parte delle loro basi di quell’area. Ma prima che “Combat Outpost Keating” chiudesse, i ribelli colpirono.
La mattina presto, era il 3 ottobre, partì un attacco coordinato che aggredì il piccolo avamposto con colpi di mortaio e con granate su ogni lato. Nel frattempo uomini armati attaccarono un altro avamposto nelle vicinanze. Almeno 175 uomini presero parte all’offensiva, ma da alcuni resoconti sembra che potessero anche essere stati il doppio. Le truppe americane erano isolate e sopraffatte sul suolo nemico. I documenti contengono alcuni estratti dei messaggi via computer inviati in tempo reale dai soldati dell’avamposto al quartier generale.
All’inizio i messaggi dicevano che Keating era in “heavy contact” con i ribelli. Poco dopo un altro messaggio chiedeva urgentemente rinforzi. «Ne abbiamo bisogno ora. Non possiamo fare fuoco e ci attaccano da ogni lato». Da quel momento iniziò la vera battaglia. «Stiamo perdendo uomini, MANDATECI QUALCOSA!». Le conseguenze delle decisioni prese al quartier generale ora si ripercuotevano sulle vite di giovani soldati arruolati. Le truppe non bastavano e per arrivare con i rinforzi ci voleva tempo. «È un volo di 40 minuti», avvertirono da Jalalabad. I soldati allora chiesero che venissero mandati dei jet. «Non riusciamo più a rispondere al fuoco». «Ci sparano dalla moschea». «Ci sparano dalla stazione di polizia».
Quando arrivarono i rinforzi i ribelli erano già penetrati nell’avamposto. Gli elicotteri iniziarono a sganciare missili sulla moschea, da dove alcuni ribelli sparavano, distruggendola. Mentre i bombardamenti continuavano i soldati americani riuscirono a impossessarsi di uno dei pochi edifici non ancora in fiamme e da lì passarono al contrattacco. Il combattimento finì solo dopo più di nove ore. Otto soldati americani erano morti e almeno dodici erano stati feriti. Anche molti soldati afghani erano morti. Gli americani iniziarono a trasferire i corpi dei caduti e nei giorni successivi dichiararono l’avamposto chiuso: lo abbandonarono così in fretta che lasciarono sul campo le scorte di munizioni. Poi lo bombardarono dall’alto per evitare che le armi cadessero nelle mani dei nemici, che avevano già iniziato a depredarlo.