La guerra alla droga non funziona
L'ennesima bocciatura della cinquantennale severissima dottrina statunitense è arrivata dai maggiori esperti mondiali di AIDS
Quando negli Stati Uniti si parla di guerra alla droga – “war on drugs” – non si fa riferimento genericamente al tema della lotta alla diffusione delle sostanze stupefacenti bensì a una ben precisa campagna del governo americano con l’obiettivo di smantellare il mercato della droga, specie quello del continente americano, grazie a una serie di politiche repressive volte a scoraggiare la produzione, la distribuzione e il consumo di droga. E si tratta di una “guerra” che va avanti ormai da diverso tempo, se si tiene in considerazione che la dizione “war on drugs” fu usata per la prima volta dal presidente Nixon nel 1971.
Negli ultimi anni, la dottrina statunitense sulla guerra alla droga è stata largamente criticata: fino a questo momento, infatti, l’ingente sforzo politico e militare ha prodotto sì un vasto numero di fermi e arresti – spesso anche ai danni di semplici consumatori, e non solo di spacciatori – ma non ha in alcun modo ostacolato né l’espansione del mercato degli stupefacenti nel continente americano né la diffusione del loro utilizzo. L’ennesima bocciatura è arrivata ieri da parte di alcuni dei maggiori esperti mondiali di AIDS, riuniti a Vienna per la 18sima conferenza internazionale sull’AIDS, che nella loro dichiarazione conclusiva hanno giudicato la guerra alla droga “un fallimento cinquantennale” e hanno chiesto che l’intero impianto strategico venga rivisto.
Uno dice: che c’entra l’AIDS con la lotta alla droga. In realtà c’entra eccome, visto che la dipendenza da sostanze stupefacenti – in particolar modo dall’eroina, per ovvi motivi – è strettamente legata alla diffusione della malattia. In molti hanno ricordato come l’approccio del Portogallo, che dieci anni fa ha legalizzato il possesso di qualsiasi droga – cocaina ed eroina compresa – se in una determinata quantità, ha permesso di ottenere risultati rilevanti: dieci anni dopo la percentuale di nuovi malati di AIDS si è dimezzata, i morti per overdose si sono enormemente ridotti così come l’utilizzo di droghe tra gli adolescenti, e molti tossicodipendenti in più si sono rivolti alle istituzioni in cerca di soccorso.
Praticamente nessuno dei molti funzionari governativi facenti parte della larga delegazione statunitense al convegno ha voluto commentare la dichiarazione di Vienna. Solo uno di loro, parlando dietro garanzia dell’anonimato, ha detto al New York Times di aver chiesto alla Casa Bianca una linea da tenere nei confronti della dichiarazione, senza successo. Un’altra eccezione nella delegazione statunitense è stata la dottoressa Nora D. Volkow, direttrice dell’Istituto Nazionale sulla Tossicodipendenza, che si è detta d’accordo col testo della dichiarazione.
“La tossicodipendenza è un problema cerebrale”, ha detto. “Io sono una scienziata. Le prove dimostrano inequivocabilmente che criminalizzare il consumo di droga non risolve il problema. Io non sono favorevole alla legalizzazione delle droghe, nemmeno alla loro somministrazione controllata. Ma non arresterei un tossicodipendente. Penso che bisognerebbe mandare queste persone dove possano curarsi, non in prigione”
Durante il convegno di Vienna si è naturalmente discusso molto della situazione della lotta all’AIDS in giro per il mondo. Non è un buon periodo, né dal punto di vista dell’attenzione né dei risultati. La crisi economica ha fatto crollare le donazioni per la ricerca, e praticamente soltanto un terzo dei trentatré milioni di malati nel mondo è in grado di comprare i farmaci necessari alla propria sopravvivenza. Per questa ragione al convegno si è respirata anche una certa frustrazione. Bill Gates è stato interrotto da alcuni manifestanti durante il suo discorso. Altri se la sono presa con Obama, reo di avere concentrato altrove la sua attenzione. Il New York Times ricorda però che tuttora gli Stati Uniti spendono per la lotta all’AIDS più di quanto spendano tutti gli altri paesi del mondo messi insieme.
C’è stata anche una buona notizia, però, arrivata proprio nei giorni del convegno: i risultati eccezionali ottenuti nei test di un gel vaginale, capace di ridurre le possibilità di contagio fino al 54 per cento. Si tratta di un fatto importante perché si tratta di uno strumento che può essere usato in completa autonomia dalla donna, rendendo la sua diffusione più facile e importante in quei contesti dove gli uomini rifiutano l’uso del preservativo.