La rete non dimentica
Condivisione di contenuti, privacy, online reputation: una società in cui ogni atto è registrato e ricordato ci legherà per sempre alle nostre azioni passate?
Nel complesso dibattito sulla privacy e sulle sue violazioni, dimentichiamo spesso che siamo noi stessi, ogni giorno, a regalare ad archivi permanenti parti delicate della nostra vita privata. E ormai la presenza online di tutte queste informazioni entra in relazione sempre più assiduamente con le vite offline e col funzionamento delle nostre società. Ne parla Jeffry Rosen, in un lungo articolo sul New York Times intitolato “Il web significa la fine dell’oblìo”:
Quattro anni fa Stacy Snyder, una venticinquenne di Lancaster in Pennysylvania che stava facendo un tirocinio come insegnante in una scuola superiore, pubblicò una foto sulla sua pagina di MySpace che la ritraeva ad una festa, mentre beveva da un bicchiere di plastica ed indossava un cappello da pirata. Il titolo dell’immagine era “piratessa sbronza”. Dopo aver visto la pagina, il supervisore nella scuola dove stava facendo il tirocinio le disse che la foto «non era professionale», ed il preside della scuola la accusò di promuovere il consumo di alcool tra i suoi alunni minorenni.
Il risultato fu che pochi giorni prima della sua laurea, l’Università le negò la specializzazione e di conseguenza l’abilitazione all’insegnamento.
Snyder fece ricorso, sostenendo che l’Università avesse violato il Primo Emendamento (sulla libertà di espressione, di parola e di stampa) e l’avesse penalizzata per aver pubblicato una foto che documentava un fatto perfettamente legale avvenuto al di fuori dell’orario lavorativo. Nel 2008, però, un giudice del distretto federale rigettò il ricorso, spiegando che le foto non potevano essere messe in relazione con una questione di pubblico interesse; la sua foto da “piratessa ubriaca” non poteva quindi considerarsi protetta dal primo emendamento.
Quando gli storici del futuro guarderanno indietro ai pericoli della prima era digitale, Stacy Snyder potrebbe diventare un simbolo. Quello che si è trovata ad affrontare è soltanto un esempio dei problemi che coinvolgono a vari livelli milioni di persone nel mondo: come possiamo vivere tranquillamente le nostre vite in un mondo in cui internet registra ogni cosa e non dimentica nulla? Dove ogni foto, ogni aggiornamento di status, ogni post pubblicato su blog o su Twitter resta per sempre?
È una questione discussa da tempo, ma che ormai comincia ad avere non soltanto implicazioni immaginate ma conseguenze concrete e quotidiane.
Con siti internet come “LOL Facebook Moments”, che raccoglie e mostra imbarazzanti rivelazioni personali degli utenti di Facebook, può capitare che foto in varia misura compromettenti, e conversazioni o contenuti messi online tornino a ossessionare le persone ritratte o coinvolte, mesi o anche anni dopo la pubblicazione su internet.
Gli esempi, ricorda Rosen, si moltiplicano quotidianamente: una sedicenne inglese è stata di recente licenziata per aver scritto che si annoiava mortalmente in ufficio sul suo status di Facebook, e a uno psicoterapeuta canadese di sessantasei anni è stato negato l’ingresso negli Stati Uniti dopo che ai controlli di frontiera si è scoperto con una rapida ricerca su internet che l’uomo aveva scritto un articolo per una rivista di filosofia in cui descriveva gli esperimenti effettuati con l’ LSD negli anni ’70.
Secondo una recente analisi di Microsoft, il 75% dei responsabili delle risorse umane dichiara che la propria compagnia richiede di fare ricerca online sui candidati all’assunzione, e ammette di aver respinto alcune candidature in conseguenza delle informazioni trovate online, come foto e interventi in forum di discussione, o adesioni a gruppi controversi.
Rosen spiega che il progresso tecnologico ha sempre presentato nuove minacce per la privacy (e ricorda che se ne lamentavano già nel 1890, al momento dell’introduzione delle macchine fotografiche Kodak, e della diffusione dei tabloid). Ma la moltiplicazione delle conseguenze indotta dalle nuove tecnologie e da internet è evidentemente rivoluzionaria.
Sappiamo già da anni che internet è terreno fertile per forme senza precedenti di voyeurismo, esibizionismo, e indiscrezione, ma soltanto adesso siamo in grado di comprendere quali siano i costi di un’era in cui molto di quello che diciamo, e di quello che altri dicono di noi, diventa parte di archivi digitali permanenti, e pubblici.
Il fatto che internet sembri non dimenticare mai nulla è una minaccia, almeno a livello esistenziale, alla nostra facoltà di controllare la nostra identità, e mette in pericolo la possibilità di reinventare noi stessi e ricominciare da capo, di superare i nostri errori del passato.
Anche questa è una parte molto interessante del dibattito, perché sta dentro a un più generale confronto tra il cosiddetto “diritto all’oblio” e la opposta formula del “non dimenticare”: confronto che genera contraddizioni notevoli anche nel nostro paese. Racconta ancora il New York Times:
Nel suo libro “Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age” (Cancella: La virtù dell’oblio nell’era digitale), Viktor Mayer-Schonberger cita il caso di Stacy Snyder e ricorda che nelle società tradizionali, in cui i passi falsi di ciascuno sono osservati ma non necessariamente registrati e ricordati, il limite della memoria umana assicura che gli errori di ognuno alla fine verranno dimenticati. Al contrario, una società in cui ogni atto è registrato e ricordato, «ci legherà per sempre alle nostre azioni passate, facendo sì che per noi sia impossibile superarle ed emanciparcene».
E conclude dicendo che senza qualche forma di oblio, il perdono diventa un’impresa piuttosto difficile.
Appunto: “e scordano sempre il perdono” (citazione di De André fuori contesto: nell’originale trattava d’altro, ma funziona) pare essere una modalità molto in aumento negli atteggiamenti sociali contemporanei, e non è detto che non abbia a che fare sia con la retorica della memoria (a cui si attribuisce la funzione opposta: ricordare per superare e perdonare) sia con la perdita dell’oblìo.
Si dice spesso, sostiene Rosen, che viviamo in un’epoca lassista e permissiva, che troppe volte concede “una seconda possibilità”.
La verità, però, è che per una grandissima quantità di persone, la permanente banca della memoria costituita dal web determinerà progressivamente la sparizione della seconda possibilità, e cancellerà ogni opportunità di sottrarsi alla lettera scarlatta che segna il nostro passato digitale. Ora la cosa peggiore che hai fatto è spesso la prima cosa che verranno a sapere tutti quelli che cercano informazioni su di te.
La nascita di Internet aveva nutrito l’illusione che ognuno potesse costruirsi un’identità segmentata in un sistema di sottoidentità fluttuanti e diverse tra loro, ciascuna dotata di un proprio pseudonimo o avatar, e di specifiche attività ed amicizie, sviluppate in contesti diversi e paralleli sul web. Tutto questo consentiva alle persone di esprimere i diversi lati della propria personalità in ambienti virtuali differenti.
La speranza secondo cui avremmo potuto controllare come ci vedevano gli altri in diversi contesti, si è rivelata un mito. Mentre alcuni social network si espandevano, è diventato evidente che non era più così facile mantenere ed amministrare identità segmentate: ora che tantissime persone usano una singola piattaforma per pubblicare costanti aggiornamenti di status e foto di loro attività pubbliche e private, l’idea di sviluppare diverse identità digitali è diventata progressivamente irrealizzabile.
Il tentativo di mantenere diverse identità, anzi, risulterebbe oggi sospetto: la reinvenzione digitale sembra ormai l’ideale di un’era passata.
La questione della “reputazione online” si è fatta più urgente e pressante, tanto che in febbraio l’Unione Europea ha finanziato una campagna di sensibilizzazione dal titolo «Think B4 U post» (pensa prima di pubblicare online), che invita i giovani a considerare le potenziali conseguenze del pubblicare foto proprie o di amici senza riflettere prima sull’opportunità di farlo, e senza chiedere il permesso.
C’è chi sulla online-reputation ha costruito un business: dato che le community autogestite come Wikipedia, o i sistemi algoritmici autocorrettivi come Google spesso fanno sì che le persone si sentano rappresentate male e scottate da ciò che si può trovare su di loro su internet, esistono alcuni servizi che si occupano di ristabilire la verità o riequilibrare in senso positivo le informazioni che circolano in rete sui loro clienti.
Quelli che pensano che la loro reputazione online sia stata ingiustamente guastata da un episodio infelice e magari di scarso rilievo che però su internet ha acquisito troppa importanza, adesso si possono rivolgere a ReputationDefender, fondato da Michael Fertik, laureato in legge ad Harvard. Spiega Rosen:
ReputationDefender, che ha clienti in più di 100 paesi promette di “ripulire” l’immagine online di chi si rivolge a loro, contattando individualmente i siti che pubblicano contenuti che il cliente ritiene imbarazzanti o offensivi, e chiedendo di rimuoverli, controllando su Google i risultati di ricerca a proposito del cliente, e allo stesso tempo bombardando la rete con informazioni positive o neutre sulla persona che si avvale del servizio.
Fertik racconta il senso del servizio:
Cresce rapidamente il numero di persone a cui i selezionatori, durante un colloquio di lavoro, ordinano di aprire davanti a loro la pagina personale di Facebook; tra i nostri clienti ci sono anche persone i cui figli hanno scritto su internet: «la mamma non ha avuto l’aumento» oppure «il papà è stato licenziato» o anche «mamma e papà hanno litigato un sacco, ho paura che divorzino».
Le società come Reputation Defender offrono una promettente soluzione a breve termine per chi se la può permettere. Di certo però non può essere considerata una soluzione definitiva, considerato l’avvento di programmi di riconoscimento facciale utilizzabili per i social newtwork, e la crescente diffusione di siti in cui si possono pubblicare “recensioni” anonime che riguardano altre persone.
Un altro problema di cui parla il New York Times è il caso in cui una persona faccia causa ad un sito che pubblica contenuti offensivi o sensibili, e vinca la causa: la legge e le sentenze non sono chiare in merito all’obbligo del sito a rimuovere o rettificare il contenuto contestato. Jonathan Zittrain, che insegna Diritto informatico alla facoltà di Legge di Harvard suggerisce una soluzione che agisca sul piano legale, e propone di dichiarare una specie di “bancarotta della reputazione” ogni dieci anni, creando una categoria di informazioni sensibili e facendo sì che queste informazioni sensibili o giudizi negativi non possano restare negli archivi web oltre un certo periodo di tempo. Un simile procedimento restituirebbe la possibilità di “ricominciare da capo”.
Le soluzioni più adatte al problema, però, potrebbero essere non di natura legale ma tecnologica. Invece di fare causa a danno avvenuto (o assumere dei professionisti per cancellarne le tracce), si dovrebbero studiare metodi per far sparire preventivamente parole o immagini potenzialmente offensive o sensibili.
Mayer-Schönberger propone un esempio di soluzione tecnologica, che suggerisce di imitare la capacità umana di dimenticare attribuendo ai dati una scadenza. Immagina un mondo in cui i dispositivi di archiviazione dati siano programmati per cancellare foto o post sui blog o altre informazioni una volta raggiunta la data di scadenza, e suggerisce agli utenti venga richiesto di impostarla prima di salvare ogni dato.
Rosen ricorda Google ha deciso qualche tempo fa di rendere anonime le ricerche dopo nove mesi (cancellando parte degli indirizzi IP ad esse collegate), mentre il nuovo motore di ricerca Cuil ha annunciato che non conserverà alcuna informazione personale sugli utenti.
Nascono anche le prime applicazioni con funzioni simili a quelle immaginate da Mayer-Schönberger: TigerText (il cui creatore garantisce che è stato battezzato così prima dello scandalo online che ha riguardato Tiger Woods), ad esempio, permette di impostare un tempo limite per l’archiviazione degli sms di massimo 30 giorni, trascorsi i quali il messaggio viene cancellato sia dai cellulari di mittente e destinatario che dagli archivi della compagnia telefonica.
Sulla questione delle date di scadenza, Rosen aggiunge:
Tadayoshi Kohno, designer di Vanish, mi ha detto che Facebook, se volesse, potrebbe implementare delle date di scadenza sulla piattaforma, facendo sparire i nostri dati dopo tre giorni o tre mesi a meno che l’utente non decida altrimenti.
Finora, però, Zuckerberg, capo di Facebook, si è mosso nella direzione opposta – verso la trasparenza piuttosto che la privacy – […] obiettando che Facebook ha il dovere di riflettere le norme sociali che favoriscono l’esposizione dei dati.
Parallelamente allo sviluppo delle tecnologie per limitare i danni, diversi studi dimostrano che i giovani utenti dei social network, segnati da esperienze negative e frustrati da un’informativa sulla privacy più lunga della costituzione degli Stati Uniti, sono sempre più cauti rispetto ai contenuti che postano online. È quindi probabile, come sostiene Zuckerberg, che siano le norme sociali a plasmarsi sulle tendenze delle nuove tecnologie: capita già di sentirsi chiedere di non pubblicare online un certo contenuto, o di non scrivere su Twitter di un certo appuntamento.
Il problema vero è che, se la tecnologia dà l’impressione di poter essere controllata, le norme sociali possono essere violate in qualsiasi momento da chiunque decida, semplicemente, di non rispettarle. Inoltre è stato dimostrato che i fatti negativi tendono a circolare più a lungo di quelli positivi, ai quali, peraltro, le persone tendono a dare meno attenzione. Il rischio è che tra vent’anni restino solo le tracce negative del nostro passato.
L’autocontrollo sembra a tutt’oggi il metodo più efficace: gmail ha ideato un plug-in aggiuntivo che ti impone di verificare la tua lucidità al momento dell’invio di un’email, costringendoti a risolvere un quesito matematico col dichiarato intento di impedirti l’invio se sei ubriaco (il plug-in, Mail Goggles, si attiva automaticamente a tarda notte nei fine settimana). Soluzioni del genere potrebbero essere, se non una soluzione, almeno un buon deterrente a non condividere contenuti di cui ci si può pentire.
L’avere costantemente un profilo pubblico sta cambiando il modo in cui definiamo noi stessi e la nostra vita. Dice Rosen:
Alcuni potrebbero accogliere favorevolmente la fine dell’identità segmentata e della possibilità di condurre vite parallele, perché la continua esposizione scoraggerà i comportamenti riprovevoli e l’ipocrisia. È più difficile avere un’amante se sei abituato a segnalare in tempo reale tutti i tuoi spostamenti su Facebook.
Non abbiamo già più volti e atteggiamenti differenti a seconda del nostro interlocutore, la vita lavorativa e quella privata si stanno fondendo in una sola, e di conseguenza siamo portati ad essere più onesti e più predisposti alla comprensione verso gli altri. Per questo motivo, conclude Rosen, una prospettiva diversa e più incoraggiante può essere quella che ci vedrà più indulgenti verso le foto da ubriachi su Facebook.
Il nostro carattere non può essere valutato correttamente da sconosciuti sulla base di profili di Facebook o Google, ma soltanto da chi ha tempo di conoscere e capire le nostre debolezze e punti di forza, e sarà necessario imparare nuove forme di empatia, e nuovi modi di definire noi stessi senza fare costante riferimento a quello che gli altri pensano e dicono di noi e nuovi modi di perdonarci l’un l’altro per le tracce digitali che ci porteremo dietro per sempre.