I cinesi che volevano comprare Newsweek
Un gruppo editoriale riformista cinese ha presentato un'offerta, poi rifiutata, per l'acquisto della famosa rivista americana; avrebbe determinato l'ingresso della Cina nel mondo dell'informazione occidentale
di Simone Pieranni, Matteo Miavaldi
Quel genio di Philip K. Dick nella sua opera prima, Paradiso Maoista, descrive una scena che ben rappresenta il timore yankee di fronte allo spettro cinese: un soldato americano offre il proprio accendino ad un cinese. Quest’ultimo accende la sigaretta e poi lascia cadere a terra l’accendino. Infine, sprezzante, lo schiaccia col piede, distruggendolo. L’ambientazione temporale è il 1949, l’anno che vide nascere la Repubblica Popolare Cinese. Dick scrisse la sua opera nel 1954, immaginando forse uno strapotere che sarebbe dovuto ancora passare attraverso la carestia, i balzi in avanti, la rivoluzione culturale, un paese sulle ginocchia piegate del proprio controverso leader. Dopo la morte di Mao, la spuntò il piccolo uomo, Deng Xiaoping, con il suo «arricchirsi è glorioso».
La Cina, l’ex malato d’Asia, tornò a risplendere economicamente, portando nel giro di pochi anni milioni di persone al di sopra della soglia di povertà. Lo ha fatto a prezzi altissimi, superando la crisi di fine anni Ottanta macchiata dagli spasmi in mondovisione della protesta studentesca, creando un modello sociale profondamente ineguale in cui il collettivismo socialista è stato sostituito da una forma di individualismo completamente declinato al consumo. L’orgasmo della rinascita. L’uomo cinese diventa tronfio, non mangia il riso, perché è cibo dei poveri, si affanna a sfoggiare la nuova ricchezza. Poi arriva il momento in cui questa ricchezza, i progressi, vanno spiegati, modulati, espressi, consegnati. Arriva il momento dell’autonarrazione: ogni mito vive del proprio racconto, celebrativo o meno, ma pur sempre mitico. C’è oggi una grande differenza tra il Paradiso Maoista e l’Attuale Realtà con Caratteristiche Cinesi: oggi l’uomo cinese del romanzo di Dick forse non schiaccerebbe l’accendino americano. Forse proverebbe a comprarlo, spiegando poi agli americani come produrne uno migliore. L’uomo occidentale, invece, ha ancora paura.
Assalto al cielo (degli altri)
La notizia ha trovato spazio soprattutto sui media americani – e cinesi – ma è stata in generale sottovalutata: qualche settimana fa, il gruppo editoriale cinese Southern Daily Group ha provato a comprare il celebre magazine americano Newsweek, di proprietà del Washington Post, falcidiato dalla crisi e dai debiti. Un’operazione non riuscita, ma che potrebbe costituire solo il primo dei tentativi cinesi di rompere il proprio isolamento mediatico in terre occidentali. Negli States si è dibattuto a lungo e non ha pesato poco, nel mancato passaggio di mano, la cattiva fama che spesso viene collegata alla professionalità cinese per quel che concerne l’informazione. Dire giornalismo cinese spesso significa dire censura, controllo, propaganda.
Non che la nomea sia completamente basata su falsità ed illazioni: assistere a conferenze stampa in Cina senza neanche una domanda, spesso è un esercizio di resistenza ai propri istinti ribelli, ma è anche vero che non si può certo valutare l’informazione di un Paese da un telegiornale di una rete nazionale o dagli editoriali di un quotidiano appartenenti allo stesso proprietario, nonché al vertice della politica nazionale (stiamo parlando del Partito Comunista Cinese…).
In Cina, specie dopo la vetrina olimpica del 2008, in tanti hanno sottolineato come molti dei problemi internazionali del Paese siano dovuti ad un uso poco moderno dei mezzi di informazione da parte dei governanti locali. Molti intellettuali nelle proprie interviste, tra il serio ed il divertito, sostengono che il Partito avrebbe bisogno di una strategia di PR al passo con i tempi. Il Partito, dal canto suo, ha i suoi tempi, ma è pur sempre molto meno marmoreo e monolitico di quanto spesso lo si immagini e non gli mancano certo le possibilità di tastare il polso della situazione. Complice la sua costante crescita economica, la Cina è ormai in grado di investire in mastodontici progetti con l’intento di espandere il proprio bacino mediatico, correggendo così alcuni difetti di comunicazione.
Negli ultimi tempi, l’attenzione dei media in Cina si è intensificata proprio in questa direzione: la Xinhua, la più grande agenzia di news del Paese, legata a doppio filo al governo, ha lanciato il suo servizio di news televisive mondiali, 24 ore su 24. La China News Network Corporation nasce con uno scopo preciso: dare risalto ed eco internazionale al punto di vista cinese su quello che succede nel mondo, raggiungendo nel primo anno un’audience di circa 50 milioni di spettatori. Anche questo è soft power: ci apprestiamo ad avere una CNN cinese, con servizi da ogni angolo della terra, specie dalle zone strategiche, in grado di influenzare quanto solitamente viene comunicato sulla Cina.
CNN cinese, assalto a Newsweek, soft power: lecito porsi alcuni dilemmi a riguardo. Bi Yantao ad esempio, direttore del centro di ricerche dell’università di Hainan, ritiene che Newsweek sia una sorta di colabrodo economico, un investimento senza futuro, ma in grado di aumentare il prestigio internazionale della Cina alle prese con l’informazione nel mondo occidentale. Evan Osnos invece, sulle colonne del New Yorker, pone il problema di fondo, rispetto alle tante critiche Usa sul giornalismo cinese: i giornalisti cinesi meritano rispetto, ha scritto. Allora, di che giornalismo stiamo parlando?
Southern Media Group e figli
Il gruppo che ha provato la scalata a Newsweek è l’editore di alcune tra le testate più riformiste della stampa cinese: un editore, occorre specificare, con un grado di autonomia minimo dal Partito Comunista Cinese, che oltre ad essere il proprietario di tutti i media nazionali è anche l’organo che decide dove vanno i soldi e che, quando serve, fa sentire la sua autorità defenestrando reporter troppo anticonformisti ed indicando i nomi da posizionare nelle alte sfere delle redazioni. Le direttive su cosa è meglio pubblicare e cosa no solitamente arrivano direttamente nelle redazioni dei giornali, diramate dalle autorità governative nazionali o locali chiamate in gergo «Il Ministero della Verità», così che i direttori e i loro sottoposti siano sempre al corrente della linea del Partito, da seguire scrupolosamente. In questo clima propagandistico da Ventennio, c’è però chi decide di tenere la schiena dritta, andando incontro ad un destino proporzionato alla gravità dell’ammutinamento.
Nell’aprile del 2008, Chang Ping era uno degli editorialisti di punta del Nanbu Zhoukan, magazine settimanale del Guandong controllato dal Southern Media Group. La sua carriera andava a gonfie vele e solo un anno prima era stato premiato come uno degli editorialisti più influenti del Paese. In quel periodo l’arsenale mediatico cinese stava ancora bombardando l’opinione pubblica nazionale, mostrando video e raccontando le sommosse che da marzo si erano propagate dal Tibet fino in Xinjiang, soffiando sul fuoco nazionalista che stava tenendo unita la Repubblica Popolare in vista delle Olimpiadi. Mentre impazzava la gara al fondo più patriottico, all’indignazione per le minoranze ingrate e alle accuse di parzialità e malafede ai media occidentali, Chang Ping si tirò fuori dalla mischia e scrisse un pezzo sull’importanza della libertà di stampa, sulla difficoltà di poter veramente raccontare la verità di Lhasa in quelle condizioni, spronando i suoi lettori a riflettere sulla mancanza di libertà di espressione, piuttosto che inveire contro i reporter occidentali e i loro resoconti di parte.
L’articolo scatenò l’ira nazionalista dei netizen, che su internet accusavano Chang di aver tradito la causa cinese, mentre editorialisti di altre testate non esitavano ad additarlo come «sobillatore». In mezzo al fuoco incrociato di colleghi ed opinione pubblica, Chan Ping non si rimangiò nulla, rincarando la dose quando sul suo blog ripercorse la sua esperienza di giornalista in Cina, un equilibrista dell’autocensura: «la cosa nella quale mi sono allenato di più negli ultimi dieci anni, è stato l’evitare rischi nel mio lavoro. L’autocensura era oramai parte della mia vita. E di questo provo per me stesso un senso di disgusto. Alcuni dei miei colleghi sono molto orgogliosi delle loro doti censorie, e ne fanno ampio sfoggio davanti agli altri impiegati. Anche io dispongo di quelle doti e le utilizzo ogni giorno, e di questo me ne vergogno, come si vergogna il boia sapendo di esser bravo ad ammazzare».
Circa un mese dopo, agli inizi di maggio, venne licenziato in tronco.
Nel settembre dello stesso anno, ad Olimpiadi concluse, i giornali cinesi iniziarono a raccontare dello scandalo del latte in polvere Sanlu allungato con la melamina, causa di oltre 300.000 casi di intossicazione in tutta la Cina e della morte di 6 neonati in seguito a complicazioni renali.
Le prime avvisaglie dell’avvelenamento di massa erano già nell’aria verso la fine di luglio, come ha raccontato sul suo blog Fu Jianfeng, giornalista del Nanfang Zhoumo: «In realtà, il nostro He Feng aveva saputo che verso la fine di luglio almeno 20 bambini erano stati ricoverati per calcoli renali […] dopo aver bevuto del latte in polvere Sanlu. Ma per le ragioni che tutti ben conosciamo, non fummo messi nelle condizioni di investigare in modo appropriato, poiché in quel momento era necessario che l’armonia permeasse ogni angolo [della Cina]». La notizia doveva rimanere nel cassetto: in Cina lo scoop non lo fa chi arriva prima, ma chi arriva nel momento giusto.
Non sempre però le convergenze temporali con le volontà del governo bastano per non incorrere nella tagliola della censura. Xiang Xi, una delle firme di punta del Nanfang Zhoumo, era riuscito a centrare uno di quei colpi che ti cambiano la carriera: aveva appena intervistato, in esclusiva nazionale e senza i mastini della propaganda a fare pressioni, il presidente americano Barack Obama. Tutto sembrava filare liscio, l’intervista era stata concordata previo beneplacito del ministero degli Esteri cinesi, ed era uno scoop da prima pagina, un pezzo che sarebbe rimbalzato in tutti i giornali, le radio e le tv del continente.
Ancora non è chiaro cosa abbia fatto innervosire i censori del Partito, ma in concomitanza con l’uscita dell’intervista, che occupava tutta la prima pagina del settimanale, il Ministero della Verità aveva già spedito in tutta la Cina il bollettino del giorno: «Ordini dal Dipartimento Centrale della Propaganda e dell’Informazione: a tutti i media, inclusi giornali, pubblicazioni di vario tipo e siti internet, non è permesso riprodurre l’intervista fatta dal Nanfang Zhoumo al presidente americano Barack Obama». Tutti i media nazionali ignorarono di fatto l’intervista del settimanale, che addirittura arrivò in alcune case di Pechino sprovvisto della prima pagina incriminata. Lo scoop, che doveva risuonare in tutta la Repubblica Popolare, si risolse in un sussurro tra le pagine del Nanfang Zhoumo, un’oasi nel deserto dell’informazione mainstream cinese.
Miti tecnicizzati e pubblico pagante
«Il mito tecnicizzato inonda l’inconscio perché le sentinelle dormono e nessuno dà l’allarme» (Wu Ming, Lezione su 300, scaricabile su www.wumingfoundation.com). Chissà se il mito tecnicizzato cinese pronto ad inondare l’inconscio occidentale avrà vita facile come quello statunitense tempo fa e non solo. Rimane il fatto che la Cina, da potenza, è pronta ormai a scaricare la propria visione del mondo sul resto del pianeta.
Restano da capire tempi e modi, ma più di tutto interessa il messaggio. Quale sarà l’immagine dell’uomo cinese che Pechino ha in serbo per formare il nuovo mito della super potenza cinese? Per ora esistono molti tentativi pronti ad elaborare concetti e proposte culturali in grado di modificare anche l’immagine che spesso si ha della Cina, ridefinendone e modificandone l’identità contemporaneamente al suo evolvere sociale. Armonia, controllo, sicurezza. Il film Founding of a Republic ad esempio, record d’incassi in Asia, rappresenta il racconto epico cinese del passaggio dall’Impero alla Repubblica Popolare: una visione della storia del Partito Comunista molto convincente, grazie a centinaia di guest star e ad una trama che potrebbe essere tranquillamente divisa in molte parti per diventare una fiction particolarmente apprezzata anche in Occidente. Una sorta di The Patriot alla cinese, in cui troviamo perfino un Mao sbronzo a cantare l’Internazionale, o a chiedere il ritorno del capitalismo per avere le sue sigarette preferite, in cui la Cina e la neonata Repubblica Popolare Cinese nascono in contrapposizione al dispotismo tirannico di Chiang Kaishek, i suoi sgherri nazionalisti e la sua corruzione dilagante. Una sorta di messaggio ai politici di oggi, per non ripetere gli errori del passato. In un salto quantico tutto occidentale, il Kuomintang descritto nel film non sembra molto differente dal lato più oscuro del Partito, oggi. Un’epica di cui molti hanno messo in evidenza le incongruenze storiche, ma che è in grado di sviare dalla vera storia per mettere in risalto una parte del suo mito attuale.
Rimanendo sul terreno dell’entertainment, non si può non notare un movimento convergente, anche in questo senso: la Cina ha da tempo messo nel mirino Bloomberg, Time Warner e Viacom, consentendo alle imprese private e straniere di investire in tutto, dalla musica al cinema, dalla televisione al teatro, dalla danza a produzioni d’opera, anche se in gran parte tramite società di proprietà statale. Si tratta pur sempre di un’apertura rilevante. Senza contare l’universo dei giochi on line, localizzazione di strutture narrative cinesi, o la stessa produzione di libri di autori cinesi che ormai inondano il mercato occidentale. Tra le prime aziende a beneficiare della nuova politica di apertura del governo in tema di comunicazione c’è la Shanghai Media Group, uno delle più importanti del Paese. SMG lo scorso anno ha chiuso con un profitto di circa 100 milioni di dollari. Il prossimo Founding a Republic, potrebbe diventare un blockbuster anche in Occidente e magari, dopo il kung fu ed i panda, la nuova civiltà cinese potrebbe irretire anche la nostra visione del mondo, in modo più complicato di quanto abbia fatto nel passato.
Informazione con caratteristiche cinesi
Procuratevi una radiolina, sintonizzatevi su AM 1458 tra le sette e le otto di sera: se avete fatto tutto per bene, dovreste poter sentire la programmazione quotidiana di China Radio International, in italiano. Ora la domanda da porsi non è, come verrebbe naturale, «a chi interessa sentire una radio cinese in italiano nel 2010?», bensì «per quale motivo il governo cinese sta investendo in un progetto simile?».
Bisognerebbe allora allontanarsi dal dettaglio ed esaminare tutto il mosaico dell’informazione internazionale cinese: secondo l’Herald Tribune, nell’annata 2009/2010, Pechino ha messo a bilancio sotto la voce «promozione internazionale» ben 8,7 miliardi di dollari, principalmente ridistribuiti tra i quattro colossi nazionali: China Central Television (CCTV), China Radio International (CRI), l’agenzia di stampa Xinhua ed il quotidiano cinese in lingua inglese China Daily.
Le quattro punte di diamante della propaganda si stanno attrezzando per aggiungersi alla sinfonia delle news internazionali, fino ad oggi un concerto per archi e media occidentali, guidati dai primi violini americani.
Tra siti web tradotti in oltre 60 lingue, canali satellitari di news in inglese, stazioni radio in tutto il globo e servizi di agenzie di stampa efficienti e meno costose, che già oggi sono la spina dorsale dell’informazione quotidiana in gran parte del continente africano, presto ci abitueremo a guardare il mondo anche con occhi cinesi, come già sperimentato osservando la sempre maggior autorevolezza di Al Jazeera nelle vicende mondiali.
Mentre da una parte saremo informati sui livelli di inquinamento dell’aria di Pechino, sulle esplosioni delle miniere nella Cina del nordest, sulle alluvioni delle regioni del sud o sul conteggio approssimativo dei condannati a morte dai boia cinesi, dall’altra scopriremo dati impensabili sugli investimenti della Cina nelle nuove energie pulite, sugli accordi siglati con gli stati dell’Africa nera, sul ruolo delle aziende cinesi nella ripresa del mercato afgano, e magari perché no, anche qualche inchiesta sulla situazione economica americana e sulla questione dei diritti umani nel mondo occidentale.
Nell’era globale dell’informazione, in Cina hanno capito che senza un apparato adeguato di megafoni oltre confine, l’espansione culturale di una potenza non può avere successo; esportare involtini primavera ed elettrodomestici difettosi non basta più, il progetto si sta facendo molto più ambizioso: dopo i capitali ed i prodotti, si esportano le idee e gli stili di vita. Negli anni Cinquanta, gli americani hanno iniziato con la Coca Cola, John Wayne ed il Rock ‘n Roll, assicurandosi il podio di superpotenza mondiale fino ai giorni nostri; dieci anni fa, la Cina ha iniziato la sua scalata alla leadership globale a suon di «gelato flitto e lavioli a vapole», passando per arti marziali e cultura millenaria. Dove arriverà lo scopriremo presto, statene certi.