Tre scenari per l’Egitto
La successione di Mubarak sta arrivando al pettine, e la soluzione auspicabile non è la più probabile
di Roberto Roccu
Una barzelletta assai popolare dice molto dell’attuale stato d’animo dell’Egitto. Dio sta leggendo un giornale quando improvvisamente si rende conto che Hosni Mubarak è stato a capo dell’Egitto per quasi trent’anni. Dà ordine all’arcangelo Gabriele di scendere sulla terra e avvisare il presidente che è giunto il tempo che dica addio al suo popolo. “Veramente?”, reagisce Mubarak, cadendo dalle nuvole, “e dove vanno?”.
La lunga attesa, la chiama l’Economist, in uno speciale all’interno dell’ultimo numero dedicato all’eredità che Mubarak si lascerà dietro, e alla questione della sua successione. Un’attesa che rischia di diventare sfibrante, soprattutto per quelli che hanno passato gli ultimi anni a riposizionarsi in vista della resa dei conti, che si avvicina ma non si sa bene quando arriverà. Persone come Omar Suleiman, capo dei servizi segreti (il temutissimo Mukhabarat), pronosticato come il più probabile successore di Mubarak già all’inizio del decennio ai primi problemi di salute del presidente, ed ora diventato a sua volta troppo vecchio per poter ambire alla successione. E indubbiamente pure il vecchio Hosni ci mette del suo, con la sua promessa/pretesa di governare “fino all’ultimo respiro”.
È soprattutto sulle dinamiche interne al regime che si concentra l’attenzione di Max Rodenbeck, autore dell’analisi sull’Economist, e sugli scenari che si apriranno per il paese quando Mubarak non ci sarà più:
Il piano del governo di mantenere il potere attraverso la solita tiritera elettorale probabilmente andrà avanti. Le previsioni di cambiamento si sono quasi sempre dimostrate sbagliate; normalmente si finisce per tirare avanti come al solito. Ma questa volta potrebbe andare diversamente. Per il paese vi sono tre scenari possibili. Potrebbe andare nella direzione della Russia ed essere governato da un “uomo forte” interno al sistema. Potrebbe potenzialmente anche andare nella direzione dell’Iran, e vedere il vecchio sistema spazzato via dalla rabbia. O potrebbe andare nella direzione della Turchia, ed evolvere in qualcosa di meno fragile e più auspicabile per tutti gli Egiziani.
Issandr Amrani, blogger tra i più accreditati tra quelli accessibili ai non-arabofoni, ritiene che il primo scenario sia il più probabile nel breve periodo, mentre conviene con l’Economist sul fatto che il terzo sia l’unico veramente auspicabile e foriero di sviluppo non solo economico.
Gli indicatori infatti parlano di un’economia che ha tenuto botta durante la crisi economica e che adesso è in crescita esponenziale, al traino dei grandi mercati emergenti, ed in particolare di Cina e Turchia. Nonostante ciò, il regime si trova in una delle fasi più delicate della sua storia, alle prese con una crisi di legittimazione che per la prima volta dalle “rivolte del pane” del 1977 sta portando sistematicamente per strada gli egiziani, soprattutto i più giovani e istruiti.
In maniera interessante eppure prevedibile, l’Economist trascura la crescente importanza assunta dalla figura di ElBaradei, se non altro come catalizzatore del dissenso nei confronti del regime. Interessante perché ci si aspetterebbe un’attenzione maggiore da parte del principale settimanale britannico di ispirazione liberale per un movimento spontaneo che chiede riforme politiche in un paese autoritario guidato da un uomo di relazioni e popolarità occidentali. Prevedibile perché tutto sommato non si discosta granché dalle reazioni delle principali diplomazie occidentali, e di quella britannica e statunitense in particolare. Fin da Camp David, l’Egitto è stato un ottimo “luogotenente dell’America” nel Medio Oriente, per cui dopotutto si può anche chiudere un occhio sul suo sistema politico. A maggior ragione se l’economia continua a crescere a questi ritmi.