Il Belgio è diviso, ma se la prende comoda
Per la formazione del nuovo governo probabilmente sono ancora in corso le consultazioni
Non è che ce ne siamo dimenticati, del Belgio: è che sono ancora lì che cercano di formare un governo da settimane. Le elezioni del 13 giugno hanno sancito la nota divisione del paese: a nord hanno vinto gli autonomisti fiamminghi di Bart de Weaver, a sud i socialisti francofoni di Elio Di Rupo. La campagna elettorale era stata particolarmente tesa, e più volte il nord aveva avanzato pretese secessioniste. Del rischio di spaccatura del paese si parla ormai con insistenza da almeno due anni, complice l’instabilità dei suoi governi. Tutto suggerirebbe quindi una certa premura nella costruzione della nuova maggioranza.
Il re Alberto II aveva inizialmente affidato a De Wever un incarico esplorativo per verificare le possibili maggioranze. De Wever ha rimesso l’incarico pochi giorni dopo dichiarando di aver fatto progressi ma di non aver raccolto sufficienti consensi, e dando la sua disponibilità a collaborare con Di Rupo. A quel punto il re ha affidato l’incarico a Di Rupo (anche questo con cautela definito di “preformazione”): e sono passati dieci giorni e Di Rupo, con la collaborazione di De Wever, sta ancora facendo riunioni con i vari partiti. “In tutta discrezione”, dice il quotidiano Le Soir, annunciando che non sono previste scadenze.
Dopo le elezioni del 2007 al Belgio erano serviti ben nove mesi per formare il nuovo governo. Il tutto sullo sfondo della divisione del paese, raccontata oggi con una storia esemplare dal New York Times.
Wemmel è un paese di quattordicimila abitanti alla periferia di Bruxelles. La maggior parte delle famiglie che vivono qui è francofona. Ma per la legge regionale la lingua ufficiale è quella fiamminga. Questo vuol dire che i rapporti della polizia devono essere scritti in fiammingo, le schede elettorali devono essere in fiammingo, il 75% dei libri e dei dvd acquistati per la biblioteca deve essere, sì, in fiammingo. Quando il sindaco di Wemmel, Christian Andries, presiede il consiglio comunale non può pronunciare neanche una sola parola in francese: altrimenti la seduta è annullata. “È assurdo”, sospira.
Fu proprio una disputa per i diritti di voto che portò alla caduta del governo lo scorso aprile. Incapace di risolvere il problema di confini delle circoscrizioni dopo più di tre anni di tentativi, il primo ministro Yves Leterme gettò la spugna (per la terza volta) e il re accettò le sue dimissioni.
Il sindaco di Wemmel non è sorpreso di quello che sta succedendo. Discendente da una famiglia fiamminga, ha gestito le tensioni per più di dieci anni, amministrando una cittadina che tecnicamente si trova nella regione fiamminga del Belgio ma che è ormai di fatto a prevalenza francofona da quando molti abitanti di lingua francese lo hanno scelto come rifugio verde a pochi chilometri da Bruxelles. La casa di Andries una volta è stata tappezzata di cartoline di protesta che lo accusavano di avere costretto i dipendenti della biblioteca a scrivere lettere in francese per informarsi su certi materiali che potevano essere disponibili per la biblioteca. Le lettere erano indirizzate ad alcuni cinema francesi. Ma ai residenti fiamminghi di Wemmel questo non interessava: non era permesso. Avrebbe dovuto far scrivere le lettere in fiammingo.
Ma i problemi del sindaco di Wemmel sono niente in confronto a quelli dei sindaci della BHV (la zona che comprende Bruxelles, Halle e Vilvoorde, oggetto della contesa sui cui è caduto il governo). Furono eletti più di quattro anni fa, ma non si sono mai ufficialmente insediati. Il motivo? Avevano spedito materiale elettorale scritto in francese agli abitanti francofoni dei loro paesi. In uno di questi, Linkebeek, l’80% dei 4.700 abitanti parla francese.
La questione, per quanto paradossale, ha una sua spiegazione giuridica. Il Belgio è una federazione composta da tre parti: le Fiandre al nord, la Vallonia francofona al sud e Bruxelles-capitale, ufficialmente bilingue (ma che nelle ipotesi di separazione i valloni rivendicano come propria). I francesi e i fiamminghi hanno partiti politici diversi, giornali diversi e canali televisivi diversi.
A fomentare le tensioni ci sono poi anche questioni economiche. Il Belgio è una nazione abbastanza giovane, che ottenne la sua indipendenza nel 1830 (dai Paesi Bassi, ndr). All’inizio, la sua aristocrazia parlava francese e le regioni francofone del paese – ricche di ferro e carbone – disprezzavano il nord, la cui economia si reggeva prevalentemente sull’agricoltura. Durante la prima guerra mondiale, la maggior parte degli ufficiali dell’esercito parlava francese e non si sforzavano molto di tradurre per i soldati fiamminghi.
Oggi però la parte francese del Belgio – che ha circa quattro milioni di abitanti – è più povera, mentre le Fiandre – con una popolazione di circa sei milioni di abitanti – hanno sviluppato un’economia più varia e più ricca. Per questo molti fiamminghi si lamentano che le loro tasse vadano anche al sud. In alcune aree della Vallonia, il tasso di disoccupazione è quasi al 20%. Nonostante ciò, molti abitanti rifiutano un lavoro se si trova a più di 15 km da casa loro. Un atteggiamento che dà molto fastidio ai fiamminghi.
La disputa sui diritti elettorali da cui ha avuto origine l’ultima crisi di governo è così complicata da essere quasi incomprensibile per chiunque. Il motivo fondamentale della contesa può essere riassunto così: gli abitanti francofoni di alcuni paesi della BHV – visto il grande tasso di popolazione francese che in alcuni comuni arriva all’80% – godono della cosiddetta “facilitazione linguistica”: cioè hanno la possibilità di votare anche per i candidati francesi nei seggi di Bruxelles. Principio che però non vale per i fiamminghi che vivono nelle regioni francofone. La maggior parte degli analisti politici dice che si tratta solo di una questione di due o tre seggi parlamentari. Ma i fiamminghi non ne vogliono sapere. Le due parti non sono mai state così lontane come in questo momento, e anche l’ipotesi secessionista probabilmente non risolverebbe il problema: i fiamminghi non hanno nessuna intenzione di cedere Bruxelles facilmente.