EPolis, un buon giornale nei guai
Un giornalista del quotidiano free-pay racconta perché rischia di chiudere
di Ciro Pellegrino
Quando a EPolis i giornalisti decidono di andare in assemblea per discutere di un fatto, non lasciano il computer per entrare in uno stanzone col tavolo lungo e coi microfoni. In EPolis invece si telefona al centralino – che è in Sardegna dove c’è la redazione centrale – e ci si mette in contatto. Venezia con Palermo, Napoli con Torino, Cagliari con Firenze e Bologna e via discorrendo, diciannove città italiane, tante quante le edizioni di questo giornale. EPolis è un giornale free-pay italiano, lo trovi gratis nei bar e dal salumiere oppure a 50 centesimi in alcune edicole. Oggi ci lavorano circa centotrenta giornalisti; se contiamo tecnici, grafici, amministrativi, pubblicità, sono perlomeno duecento persone.
EPolis ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti i giornali d’Italia: la gran parte dei suoi giornalisti è in telelavoro. Qualche anno fa dicevano che quello lì era il futuro. Significa che le notizie te le devi trovare così come fanno tutti gli altri tuoi colleghi. Devi scrivere e stare attento alle querele, devi titolare tentando di farti capire e devi sempre riempire quel benedetto colonnone di brevi di cronaca nera. Però lo fai da casa. Il buono è che puoi vedere tuo figlio non solo la sera quando dorme; il cattivo è che quando il sindaco non risponde al telefono e inizi ad urlare come un ossesso, tuo figlio non capisce e piange; non è mica un caposervizio di politica, lui.
Vivendo attaccati al telefono e ai suoi derivati (Skype) non ci siamo stupiti quando, tre anni fa – anche allora era d’estate -fu una chiamata ad annunciare che il giornale l’indomani non sarebbe stato più stampato. Come il marito tradito che ignora mentre tutti gli altri sanno, apprendemmo dagli altri giornali dei milioni di debiti, del fatto che la pubblicità – primo carburante di un giornale free – non andava come avrebbe dovuto, che c’erano troppe spese e pochi ricavi: sommando il tutto e tirando una linea, il risultato era un numero negativo. Un numero grande: sessanta milioni.
Fu come risvegliarsi bruscamente: fino a quel momento EPolis per molti di noi sembrava l’Eldorado, era scrivere non solo per il giornale che ti paga ma per quello che ti piace. Fu un agosto di cassa integrazione, iniziato il primo del mese con l’accordo al Ministero del Lavoro. All’epoca EPolis era controllato da Nichi Grauso (quello di Video On Line e del rastrellamento di domini internet, tra le altre cose). Trattative balneari e a settembre ci comunicano che il nuovo proprietario è l’uomo d’affari Alberto Rigotti.
Con una lunga fila di creditori, fra i quali tanti collaboratori del quotidiano, le rotative si rimettono in moto, i cronisti tornano a macinare pezzi. Quando il toc toc dei creditori si fa più pressante, arriva il piano di ristrutturazione dei debiti. Nuovi soci entrati nella compagine aziendale l’imprenditore napoletano Vincenzo Maria Greco e il deputato forzista Vito Bonsignore (nella concessionaria pubblicitaria arriva pure Marcello Dell’Utri ma lascia quasi subito), vecchie questioni da risolvere. Il giornale cresce in diffusione e pubblicità, i giornalisti rinunciano anche al diritto ad uno stipendio regolare pur di tenere in piedi la baracca; viene trovata un’intesa con i creditori privati e quelli pubblici come l’Agenzia delle Entrate. Intesa vincolata però ad un via libera – si chiama “omologa” – del Tribunale di Cagliari.
La storia di queste ore è che l’omologa non arriva, c’è un vizio di forma. Una questione piuttosto cavillosa di date da rispettare. I telefoni al centralino di Cagliari tornano a squillare, c’è assemblea e si intravede lo spettro della crisi d’estate. Dio non giocherà a dadi però ha uno spiccato senso dell’ironia: gli ultimi guai di EPolis arrivano a ridosso dello sciopero contro la legge bavaglio. L’azienda garantisce che ripresenterà la procedura, l’editore dice che vuole andare avanti.
L’ho detto che facciamo un bel giornale? Niente Cicero pro domo sua, basta confrontarlo con gli altri del suo segmento di mercato. Per scrivere e scovar notizie – noi l’abbiamo dimostrato – non è indispensabile nemmeno avere una redazione (anche se in quattro anni sono diventato molto scettico sul telelavoro, e il bambino pure). Ma la tranquillità del lavoro regolarmente retribuito, la consapevolezza del giornale che non è un eterno funambolo ed è capace di sostenerti nelle battaglie, quelle servono. Speriamo di trovarle presto.