La vicenda dello yuan spiegata a un marziano

Ecco perché la Cina tiene in pugno l'economia degli Stati Uniti, e un po' anche la nostra

di china files

Non tanto per capire meglio, ma semplicemente per capire il significato reale della dicitura esoterica “convertibilità dello yuan”, è necessaria un’infarinatura di storia del mercato valutario, esperienza per certi versi molto noiosa della quale proverò a fare un riassunto semplice e comprensibile.

Nel 1944, dopo che la Grande Depressione aveva dilaniato l’economia di mezzo mondo e creato i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale, la Società delle Nazioni, che di lì a poco avrebbe cambiato nome in Nazioni Unite, decise che fosse il caso di istituire un sistema valutario internazionale per evitare ulteriori crisi economiche globali.

44 nazioni mandarono i propri delegati a Bretton Woods, località del New Hampshire, per fondare un sistema che permettesse di regolamentare il mercato internazionale, istituendo il “sistema aureo”. Decisero che da ora in avanti, era il luglio del 1944, tutti gli stati avrebbero adottato una politica monetaria che facesse riferimento al dollaro, il quale veniva fissato al valore di un bene materiale che avrebbe costituito le riserve economiche nazionali: l’oro.

In pratica, ogni banconota da un dollaro aveva un corrispettivo reale misurato in once d’oro, e quando la banca centrale emetteva nuova cartamoneta, implicitamente garantiva che se mai un giorno il signor John Wayne, per esempio, si fosse recato in banca per cambiare i suoi soldi, gli avrebbero dato un’oncia d’oro ogni 35 dollari.

Fissato il valore del dollaro, il resto delle valute nazionali (sterlina, franchi, marchi., lira, etc.) si agganciava al dollaro fissando ognuna un tasso di cambio sostanzialmente fisso, salvo le minime percentuali di fluttuazione concesse dagli accordi: in parole povere, era stata decretata la supremazia del dollaro rispetto al resto delle valute nazionali, ovvero dei rispettivi paesi, che da quel momento avrebbero seguito le fortune e le disgrazie dell’economia americana (leggi: boom economico degli anni ’50 trainato dal dollaro).

Tutto questo bel sistema, che aveva nominato gli Stati Uniti burattinai del mercato globale, decadde nel 1971, quando l’allora presidente Richard Nixon dichiarò che le riserve auree nelle casse americane non bastavano più a pareggiare il valore di tutta la cartamoneta in circolazione in quegli anni, che aveva raggiunto dimensioni spropositate causate dal boom economico e dalle spese dissennate dell’amministrazione repubblicana per la guerra del Vietnam: venendo meno quindi il postulato di 35 dollari all’oncia, si decise di abolire il “sistema aureo” e di inaugurare il “sistema fluttuante”, ovvero il Foreign Exchange Market (Forex).

Nel Forex le valute non erano più protette da un tasso di cambio fisso, ma buttate nel calderone del mercato finanziario alla stregua di mele, banane, diamanti, mattoni, uranio, azioni di società quotate in Borsa etc.: erano insomma regolate dalla legge del mercato, domanda ed offerta, mantenendo però il dollaro americano (che caso!) come valuta di riferimento, usata ancora oggi per pagare le transazioni, ad esempio, delle materie prime (ecco spiegato perché l’unità di misura del valore del petrolio si esprime in dollari al barile). Questa rivoluzione ha aperto l’era della speculazione valutaria, altro termine abbastanza oscuro che cercherò di chiarire con un esempio nostrano.

Mettiamo caso che ci sia una compagnia aerea di bandiera, che per convenzione chiameremo Alitalia; mettiamo caso che la compagnia, quotata in borsa, offra un servizio scadente e sia indebitata fino al collo: senza saper né leggere né scrivere, se io ho per le mani delle azioni Alitalia e leggo sui giornali che lo Stato sta pensando di vendere Alitalia alla Francia, facendo incazzare tutti i lavoratori connessi al servizio e prospettando uno spostamento di capitale importante (leggi: i soldi che la Francia farà con Alitalia, andranno ad arricchire i francesi, non gli italiani), tendenzialmente me ne voglio liberare e quindi le vendo, per non rischiare di trovarmi, dopo la vendita di Alitalia, con delle azioni che non valgono nulla nel mio paniere. Il mercato, che è spesso suscettibile all’isteria popolare, decreterà il crollo delle azioni dell’Alitalia, che in questo momento sono carta straccia che nessuno vuole più.

Poi un giorno il mio presidente del consiglio va in televisione e dice che non molleremo l’Alitalia ai francesi, giammai, che c’è pronta una cordata di imprenditori amici che rileverà la compagnia e che quindi gli italiani non devono preoccuparsi! Tutti quelli che avevano venduto a prezzi stracciati le Alitalia si mangiano le mani, perché l’isteria del mercato stavolta fa schizzare in aria le quotazioni, facendo guadagnare un sacco di soldi a chi aveva comprato le Alitalia il giorno prima. Chi, comprando le azioni Alitalia quando non valevano nulla, ha guadagnato un sacco di soldi, ha “speculato”, ovvero scommesso, che in qualche modo qualcosa avrebbe fatto salire le quotazioni di mercato dell’Alitalia. Gli altri, rimangono fregati, e nel caso Alitalia ancora peggio, perché quando chi doveva speculare (la cordata di amici) aveva finito di farlo, le azioni Alitalia sono state magicamente ritirate dal mercato, ovvero non si potevano più né vendere né comprare, lasciando i meno furbi, i meno fortunati e in generale i meno “amici” con in mano il cerino spento. Il principio quindi è il seguente: nel mercato, quando qualcuno ci guadagna, qualcun altro ci perde.

Lo stesso principio si applica, nel Forex, alle valute. Se io ho dei dollari e credo che domani l’economia della Gran Bretagna avrà, per qualsiasi motivo, un fortissimo rialzo, vendo i miei dollari e mi compro un mucchio di sterline. Quando il valore della sterlina avrà finito di aumentare, rivenderò le mie sterline al nuovo tasso di cambio e mi riprenderò i miei dollari, guadagnandoci la differenza.

Il concetto, portato all’estremo nelle grandi operazioni speculative tra nazioni e aggiunto a particolari condizioni di mercato ed alla volontà dei grossi capitalisti mondiali (es. le multinazionali della frutta), espone le economie più deboli, come quelle dei paesi del terzo mondo o dei paesi in via di sviluppo, ad attacchi speculativi mirati a distruggere determinati settori produttivi, se non l’intero sistema economico di un paese. Esempi mirabili possono essere la crisi asiatica del 1997 o la più recente crisi argentina, senza contare la stragrande maggioranza degli stati centrafricani.

Complicato? Ecco, nel caso dello Renminbi cinese, o Yuan, è ancora peggio.

La convertibilità dello Yuan

Come gli altri stati degli accordi di Bretton Woods, quando nel 1949 venne introdotto in Cina lo Yuan, si decise di fissare il tasso di cambio a 2,56 RMB per dollaro. Col crollo del sistema aureo spiegato sopra e l’introduzione del Forex, la valuta cinese fu rivalutata a 1,50 RMB per dollaro, subendo una tremenda iperinflazione, ossia il valore reale dello Yuan fuori dalla Cina era sostanzialmente quello della carta straccia.

La questione in verità non impensierì molto Pechino, in quanto fino al 1978 il mercato cinese era un sistema chiuso, che non si relazionava col mercato internazionale: non si vendevano e non si compravano beni o materiali o valute non cinesi, quindi il principio di guadagni o perdite derivati dalle fluttuazioni della valuta non poteva verificarsi.

Con l’apertura e le riforme economiche del 1978, fu introdotto in Cina un sistema di doppia valuta: una, il renminbi, utilizzabile solamente all’interno della Repubblica Popolare; l’altra, consistente in certificati di cambio (le cambiali), veniva utilizzato per le transazioni estere. Le cambiali, per favorire le esportazioni della nuova Cina capitalista (loro direbbero socialismo con caratteristiche cinesi), erano artificialmente deprezzate dalle autorità di Pechino: i cinesi insomma, per esportare di più, diminuivano il valore della loro valuta, così scambiando le merci prodotte in Cina a bassissimo costo con le valute estere che gli altri stati utilizzavano per i pagamenti, iniziarono ad accumulare una grande quantità di riserve in dollari che, al nuovo tasso di cambio di 8,62 RMB per dollaro del 1994, in patria corrispondevano ad un enorme quantità di RMB. Il sistema a doppia valuta fu abbandonato negli anni ’90, ma il RMB è sempre saldamente rimasto ancorato ad un tasso fisso col dollaro, e nonostante le lievi fluttuazioni concesse da Pechino (ovvero: se il tasso fosse ad esempio 10 RMB per dollaro, la Cina permettendo una variazione del valore della valuta di 0,5%, permetterebbe al RMB di fluttuare tra i 10,05 RMB per dollaro e i 9,95 RMB per dollaro), non è mai stato abbandonato a se stesso nel marasma del mercato valutario mondiale, il Forex.

Ciò significa che, non permettendo allo Yuan di fluttuare secondo la regola della domanda e dell’offerta e mantenendone il valore sempre piuttosto basso, si è permesso alle industrie cinesi di produrre a basso costo e rivendere fuori dalla Cina senza doversi preoccupare degli scossoni del mercato finanziario, offrendo sempre un prodotto a prezzi ultra competitivi ed arricchendo le casse dello stato della più grande riserva valutaria in dollari del pianeta, pari presumibilmente ad oltre 2000 miliardi di dollari.

Man mano che la Cina si arricchisce, impiega la propria liquidità per assicurarsi una crescita economica stabile: compra giacimenti di materie prime (gas naturale, petrolio, metalli etc.) dall’Afghanistan alla Nigeria, dall’Iran al Venezuela; investe come nessun altro paese al mondo nello sviluppo e l’applicazione delle nuove energie alternative; ogni anno rimpingua le casse di Washington acquistando i loro Treasury Bond, ovvero il corrispettivo dei nostri BOT, i titoli che uno stato mette in vendita per dividere con gli azionisti i propri debiti, e li paga con gli stessi dollari coi quali gli Stati Uniti, a loro volta, avevano comprato dalla Cina magliette, scarpe, computer, bulloni, penne, televisori e tutto il resto dell’armamentario da esportazione prodotto nella Repubblica, alimentando il circolo vizioso che impoverisce sempre di più gli yankees (non solo la squadra di baseball di New York) ed arricchisce sempre di più la Terra di mezzo; quando serve, inietta enormi quantità di liquidi per salvare banche, assicurazioni, istituzioni finanziarie di vario genere, garantendo agli Stati Uniti, e di conseguenza al resto del mondo, un tenore di vita medio-alto tale che non faccia mai mancare i soldi per acquistare ciò che produce.

Se non si fosse ancora capito, ci tengono tutti in pugno.

Chi vuole la fluttuazione libera dello Yuan?

Ovviamente gli Stati Uniti, nel senso che i politici di oggi devono far vedere alla loro opinione pubblica impoverita e disoccupata che stanno cercando di fare qualcosa, strizzando l’occhiolino alle multinazionali che da un provvedimento del genere trarrebbero enormi guadagni, rilanciando le loro produzioni. Con la crisi economica causata dalla bolla del mercato immobiliare (questa non ve la spiego, vi prego!), il povero Obama, che aveva caricato di aspettative mezzo mondo, ora si ritrova a reggere le sorti degli USA e della maggioranza dell’opinione pubblica mondiale in un periodo economico terribile.

La Cina, col trucchetto dello Yuan ma anche grazie ad una politica finanziaria molto meno creativa di quella americana ed al mantenimento di un tenore di vita relativamente basso all’interno dei suoi confini, sta paralizzando il mercato delle esportazioni americane: negli USA costa troppo produrre beni che possano fare concorrenza all’offerta cinese, gli operai americani costano di più e il tenore di vita è estremamente più alto, quindi le fabbriche stanno chiudendo e delocalizzando la produzione dove è più conveniente, come in Bangladesh, Vietnam, Cambogia, cercando di produrre a basso costo ed ampliare i margini di guadagno. Se le fabbriche chiudono, la gente non lavora, se non lavora non guadagna e se non guadagna non consuma; l’economia si blocca e per mantenere il tenore di vita al quale gli americani sono abituati, bisogna inventarsi qualcosa, come ad esempio entrare in guerra, per provare a riavviare l’economia.

Se lo Yuan fosse trattato come una normale valuta nel Forex, subirebbe le oscillazioni degne di un’economia in piena espansione, aumentando vertiginosamente di valore e paradossalmente invertendo la tendenza delle esportazioni cinesi: a quel punto, costerebbe sempre di più produrre in Cina, non potrebbero più essere garantiti certi prezzi, le fabbriche chiuderebbero, i cinesi non lavorerebbero e diventerebbero gli Stati Uniti di oggi, senza hamburger e Tennessee Whiskey ma con un bel po’ di gente in più da sfamare.

Chi non vuole la fluttuazione dello yuan?

La Cina. O meglio, non è vero che non la vuole, solo non la vuole ora. E’ da leggere in questo senso la dichiarazione d’intenti fatta dalla delegazione cinese durante l’ultimo G20 di Toronto: i rappresentanti dell’establishment cinese hanno sostanzialmente detto che permetteranno allo Yuan di “ballare” dello 0,5% sul tasso fissato giornalmente dalla Banca Centrale Cinese (che in questo periodo si sta attestando attorno ai 6,7 yuan per dollaro), promettendo che in futuro aumenteranno sempre di più la percentuale di fluttuazione consentita, ma solo “nei tempi e nei modi cinesi”; il che significa: facciamo come ci pare. Se per assurdo si acconsentisse ad una rivalutazione dello yuan nell’ordine del 20/30%, ovvero il deprezzamento stimato dagli americani, la Cina andrebbe incontro ad una crisi economica senza precedenti: crollo delle esportazioni, chiusura di fabbriche, disoccupazione di massa, annientamento della produzione agricola (i contadini, raccogliendo i proventi della loro produzione solo una o due volte l’anno, sarebbero come carne da macello di fronte ad una rivalutazione repentina della valuta), malcontento generale che sfocerebbe in chissà quanta violenza.

Se poi addirittura si decretasse una fluttuazione libera della moneta, oltre allo scenario precedente si aggiungerebbe anche la minaccia “hot money”, soldi che scottano come nei gangster movie della Chicago anni ’30, ovvero i capitali speculativi che manovrati dalle grande lobby della finanza possono rovinare rapidamente il sistema economico di un’intera nazione, come nei già citati casi sudamericani ed africani.

A Pechino, dove hanno capito già da tempo la necessità della modernizzazione interna e dell’innalzamento del tenore di vita, hanno bisogno di tempo. Tempo per introdurre gradualmente maggiori diritti nel mercato del lavoro, aumentare gli stipendi (ed in questo senso è esemplare come il governo abbia cavalcato le istanze degli scioperi Honda e Foxconn e come gli stipendi dei dipendenti siano stati sensibilmente aumentati) ed innalzare il tenore di vita medio cinese.

Il primo obiettivo è assecondare le esigenze della popolazione, nel Partito dicono “servire il popolo”, così da mantenere tranquilla la maggioranza e continuare indisturbati a governare la nazione; il secondo, ancora più lungimirante, è quello di creare lentamente un mercato interno dotato di un potere d’acquisto abbastanza elevato da poter assorbire la produzione nazionale: cercare di arricchire i cinesi per far sì che siano loro a comprare i prodotti delle fabbriche cinesi, allargando enormemente il bacino da dove pescare nuovi consumatori. E non credete che qui nella Terra di mezzo si vada avanti con la produzione di regalini da Happy Meal o indumenti di bassa qualità: la Cina, nella quasi totale noncuranza del resto del mondo, sta facendo passi da gigante nell’ambito, solo per citarne alcuni, delle nuove tecnologie (possiedono il secondo supercomputer al mondo), dell’industria aerospaziale, delle energie alternative, di internet e del settore terziario in generale.

Conclusioni

Piuttosto che cercare di preveder cosa succederà nel futuro prossimo, non disponendo né di sfere magiche né della preparazione di molti analisti occidentali, vorrei precisare alcuni punti.

Le pressioni internazionali per una Cina “locomotiva della ripresa economica”, sbandierate ai quattro venti sui media occidentali, sono senza mezzi termini una richiesta di solidarietà, di volontariato alla Madre Teresa di Calcutta, un appello ad essere “buoni samaritani”. L’economia mondiale è in grave crisi, mentre quella cinese tiene, quindi secondo i governi occidentali la Cina ci dovrebbe aiutare. Per capirci meglio, sono gli stessi governi occidentali che hanno spesso schiacciato la crescita dei paesi in via di sviluppo utilizzando enti formalmente pubblici ed internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, in realtà gli 007 finanziari degli Stati Uniti con licenza di uccidere le piccole imprese o banche del terzo mondo; quelli che in nome del mercato globale delocalizzano le produzioni alla rincorsa di margini di guadagno da favola, mettendo in cassa integrazione gli operai delle loro stesse nazioni (vi dice niente Pomigliano?); insomma, quelli che per quasi 50 anni, dal boom economico agli inizio del nuovo millennio, sedevano sul palco dell’arena a fare pollice verso mentre le economie emergenti si scannavano sotto i loro occhi.

Oggi, una di quelle economie emergenti sopravvissute siede sullo scranno più alto del palco d’onore, e lancia verso il basso gli avanzi mentre i padroni di un tempo chiedono pietà. La Cina non fa altro che giocare secondo le regole stabilite dal capitalismo, avvantaggiata da una struttura monopartitica ed autoritaria che può fare programmi sui 20 o 30 anni senza timore di elezioni, usando qualsiasi tipo di mezzo per sedare i dissidi interni. E’ il principio del mercato: se qualcuno guadagna, qualcun altro perde.

E stavolta, pare che a perdere tocchi proprio a noi.