La guerra dei vecchi
Cosa c’è dietro una generazione partita per cambiare tutto e arrivata a desiderare che nulla cambi?
Negli ultimi cinque anni non abbiamo certamente risolto la questione generazionale, in Italia, ma un passo avanti lo si è fatto comunque, rispetto a qualche anno prima: ne parliamo. Ne parliamo un sacco, al punto che l’obiezione per cui se ne parlerebbe troppo e a sproposito non viene più solo da chi occupa posizioni di privilegio e potere – ci mancherebbe altro – bensì talvolta anche dagli esponenti di quella generazione, quella degli oggi trenta-quarantenni, che molti considerano discriminata e privata di un futuro dignitoso. Ma è evidente che la ragione per cui da qualche anno si parla molto di questione generazionale non sta nell’improvviso mettersi d’accordo di trentenni e quarantenni, bensì nel fatto che si tratta di un problema ormai talmente vasto da coinvolgere praticamente ogni aspetto della vita di questo paese. Parliamo di lavoro e si parla di questione generazionale. Parliamo di pensioni e si parla di questione generazionale. Parliamo di università, di welfare, di politica. E si parla di questione generazionale. C’è, evidentemente.
Un nuovo contributo alla discussione è pubblicato sul numero di questo mese di MicroMega ed è firmato dal giornalista dell’Unità Cesare Buquicchio. Il saggio si intitola “Tutta colpa dei contestatori”: è chiaro dove va a parare, ma è ugualmente interessante vedere come. Buquicchio parte da un dato di fatto: nel 2010 i primi figli degli anni Settanta compiranno quarant’anni, quella che dovrebbe essere – e in tantissimi paesi del mondo effettivamente è – l’età giusta per prendere la guida della società. Dire che questo non accadrà, in Italia, è superfluo. Lo è meno cercare e trovare le tracce di questo “imminente naufragio”.
Nell’analizzare questo imminente naufragio e nel tentativo di rintracciare possibili, residue, vie di uscita, diventa sempre più difficile da rinviare un confronto-scontro con l’ingombrante generazione dei padri,con coloro che da oltre 40 anni «occupano» il nostro paese e che, al di là di qualche rituale discorsetto sulla necessità di un rinnovamento generazionale, non sembrano avere nessuna intenzione di mollare la presa. Come è successo? Cosa c’è dietro una generazione partita per cambiare tutto e arrivata a desiderare che nulla cambi? Qual è la storia non scritta dei fallimenti di questi sessantenni e settantenni di successo? Quali sono le zone d’ombra della versione ufficiale (scritta, come sempre, solo dai vincitori)?
Tutto è cominciato dando risposte sbagliate a domande giuste, sostiene Buquicchio. La prima questione è quella delle regole: la generazione degli anni Sessanta avrebbe fatto molto per mettere in discussione il sistema valoriale del tempo, senza porsi però il problema della sua sostituzione. E quindi, finita la trasgressione e la ribellione, il ricambio generazionale si fece fine più che mezzo. E non risolse nulla. Resta il problema però della generazione attuale: è chiamata a fare il secondo passo ma non riesce neanche a fare il primo. Dovrebbe travolgere la società per poi ribaltarla, ma non riesce nemmeno a ribellarsi.
Nei discorsi pubblici e in quelli privati arriva sempre il momento in cui, da qualche esponente della generazione dei padri, perlopiù se messo allestrette sulle sue responsabilità, giunge la domanda: «Ma allora perché voi non vi ribellate? Noi l’abbiamo fatto…». La risposta a quella domanda e alla remissività della generazione dei figli, non può che risiedere anche nell’educazione e nell’immaginario in cui quei figli sono stati fatti crescere.
Qui Buquicchio tira fuori un fatto dello scorso anno: la lettera che Pier Luigi Celli – direttore generale della Luiss e già presidente della RAI – scrisse a suo figlio dalle pagine di Repubblica, per invitarlo a lasciare l’Italia. Le reazioni alla lettera di Celli furono molteplici e controverse: pochi negavano l’esistenza del problema, ma molti consideravano discutibile la critica di Celli a un sistema che questo aveva contribuito a creare. In effetti, è difficile non considerare quantomeno ipocrita quella lettera, considerato che proviene dalla stessa persona che soltanto un anno prima aveva scritto un “manuale politicamente scorretto per carrieristi di successo” intitolato “Comandare è fottere”. No?
Su tutte [le critiche], una emergeva: la convinta definizione della sua iniziativa come l’ennesimo colpo di coda di una generazione di «cannibali». Contrapposta a una generazione cortese, di prego si accomodi, una generazione mai liberatasi da quella X, segno di indeterminazione, con cui era stata marchiata, fatta di ragazzi che non alzano la voce, che scelgono il dialogo, che provano ad argomentare una resa in tempi senza alcuna certezza. Che, nel migliore dei casi, riescono solo a porre una domanda ai padri: «In nome di cosa continuate a sentirvi migliori?». Rispondere a quella domanda e, soprattutto, farne discendere le dovute conseguenze, come dicevamo, è ancora impresa ardua per una generazione, la prima, cresciuta ed educata con il costante ausilio delle immagini di tv e cinema in una società ormai compiutamente debordiana.
Immagini come quella, viva nella memoria di tutti gli adolescenti degli anni Ottanta, del “padre ingombrante e cattivo che per restare giovane e al comando ricorre a sofisticati interventi chirurgici e che, pur di non lasciare strada al figlio, è disposto a sfidarlo in un duello all’ultimo sangue”: parliamo di Darth Vader e Luke Skywalker. Oppure quella di Marty McFly, il protagonista di Ritorno al futuro, costretto a tornare indietro nel tempo “per far cambiare in meglio i suoi genitori e poi trarne beneficio dagli anni Ottanta in poi”.
Buquicchio utilizza molto la parola “immaginari”, nel suo doppio significato. Abbiamo detto della questione dei riferimenti culturali. Poi c’è la questione dell’immaginario, del fantasioso. Ai trentacinquenni veri, infatti, la società attuale oppone spesso i cosiddetti trentacinquenni immaginari.
Una delle maggiori difficoltà nell’affrontare un discorso sui conflitti generazionali, infatti, è quella della definizione del confine esatto tra una generazione e l’altra. Se individuare nonni, padri e figli, in una famiglia può riuscire relativamente facile, è, invece, più complicato districare blocchi sociali e anagrafici che si intersecano e si tangono. La consapevolezza della propria età anagrafica rende tutto più complesso. Sembra esserci una età simbolica in cui molti dei nodi che bloccano la nostra società vengono al pettine: i trentacinque anni. Da una parte la cronaca quotidiana e le vicende personali ci mettono difronte le storie e i volti dei trentacinquenni veri. […] Dall’altra parte, le stesse cronache quotidiane e l’immaginario collettivo plasmato da milioni di ore di televisione, da copertine di riviste e da film di cassetta ci racconta la storia di altri trentacinquenni: quelli immaginari. Quelli che hanno cinquant’anni e anche di più «ma sembrano trenta. Trentacinque forse. Perché si ha una pazzesca voglia di vivere. E tutto il resto conta sì, alimentazione, medicine, ginnastica, traguardi scientifici e prodigi della chirurgia. Ma alla fine ciò che comanda, che straccia l’anagrafe e fa dimenticare i certificati di nascita, sembrano essere il cuore e la mente. Non è solo questione di star system, di attrici meravigliose che superato il mezzo secolo amministrano saggiamente le proprie rughe escoprono un nuovo vento di vita. In tutto il mondo occidentale sembra che l’età apparente abbia soppiantato l’età anagrafica, si vivono stagioni multiple insieme, e la sessualità non si piega più né al tempo né al mutare del corpo» come scriveva in prima pagina Repubblica proprio poche ore prima che Sergio Marra [operaio trentacinquenne, suicida perché disoccupato] decidesse di darsi fuoco spegnendo il suo vento di vita.
Nell’era in cui spadroneggiano i prodotti per “combattere l’invecchiamento”, si verifica un singolare paradosso: i vecchi sono sempre di più, ma non sono più vecchi. E quindi guai a chi li tocca.
L’immaginario (e con esso forse anche la stessa possibilità di affrontare un serio discorso di rinnovamento generazionale) è del tutto compromesso se anche un presidente del Consiglio ultrasettantenne è convinto, da anni, di essere un trentacinquenne, se un filosofo [Maurizio Zecchi] esalta la sua paternità raggiunta a sessant’anni e se una conduttrice tv [Serena Dandini], ormai più vicina ai sessanta che ai cinquanta, insegue (inutilmente) mode adolescenziali. Compromettendo in modo così pervasivo la consapevolezza della propria età, si è inevitabilmente danneggiato il meccanismo del «passaggio di consegne» tra padri e figli, tra una generazione e l’altra.
Di una cosa però va dato atto a Celli, scrive Buquicchio. Celli ammette che la sua generazione ha fallito, ha tradito il patto sociale con i propri figli. Si tratta di una constatazione tanto scontata quanto rara. Prevale la rimozione, lo scrollarsi le responsabilità, laddove invece bisognerebbe indagare sulle reali aspettative della generazione di chi oggi ha sessant’anni, dei reali obiettivi di trasformazione di quella generazione.
La storia di quei decenni viene raccontata con una partenza libertaria, egualitaria, utopistica e altruistica, seguita da una fase di disillusione e irrigidimento (e dal pesante confronto con gli anni di piombo), per finire con la vittoria dell’edonismo e della sconfitta delle ideologie. Ecco, bisognerebbe ridiscutere questa impostazione. E forse, fatti salvi i percorsi capaci di sottrarsi all’andamento generale, scopriremmo che anche la partenza iniziale di quell’onda di ribellione era sotto il segno dell’egoismo. La battaglia contro il conservatorismo della generazione dei loro «padri», al di là delle intenzioni di alcuni e della modernizzazione necessaria di quella società, ora ci sembra nient’altro che una razzia delle risorse dei vecchi. Risorse che i vecchi stavano conservando, come le generazioni precedenti gli avevano insegnato, in attesa del momento giusto perpassare la mano, e dunque, per tramandarle proprio a loro, ai loro figli.
Insomma, la critica ai padri e l’elogio dei nonni. Non sono i vecchi in generale, il problema: sono questi vecchi.
Basta fare un piccolo confronto tra la generazione degli eterni padri di oggi e quella dei nonni di ieri, tra quei «sogni per principianti» male o poco realizzati dalla fine dagli anni Sessanta in poi, e quelli più «maturi» e consapevoli immaginati e realizzatidalla generazione uscita adulta dalla guerra (benessere, tolleranza, mobilità sociale, capacità di innovazione, pace, avvio del processo europeista eccetera), per rendere evidenti le diverse dinamiche tra le ultime tre generazioni. […] Nel buttare via l’acqua sporca delle degenerazioni del conservatorismo, invece, i sessantenni di oggi, i figli di quei padri, hanno buttato anche il bambino del senso di conservazione, dell’idea di tutela delle risorse da tramandare a chi veniva dopo di loro, e cioè ai loro figli. L’idea che si nasce, si cresce, si invecchia e si passa la mano a chi arriva dopo, viene bollata come un subdolo trucchetto da vecchi reazionari. Viene sostituita dall’ambizione di «realizzarsi» come individuo prima ancora che come gruppo sociale, dal dare, per citare Zygmunt Bauman, soluzioni biografiche o individuali a contraddizioni sistemiche, dal mantra del «sii te stesso», non preoccuparti degli altri e, in definitiva, dalla convinzione che sia possibile non invecchiare e, forse, non morire mai.
Quindi l’obiettivo è diventato uno e uno soltanto, prioritario: l’autoconservazione. E bisogna tenere i piedi ben piantati a terra: non si parla di filosofia, questo non è un discorso vago e astratto. Tutt’altro. Ha a che fare con le decisioni, con l’economia, con l’approccio utilizzato davanti ai problemi e alle cose.
Uno dei passi principali in questa direzione è stato ridisegnare la geografia delle risorse e la loro distribuzione sociale. Sul mercato del lavoro questo si è tradotto con il termine: precariato. L’introduzione, dai primi anni Novanta in poi, di decine di contratti diversi per regolare i rapporti di lavoro, giustificata con il tentativo di ridurre la disoccupazione, ha portato solo a una riduzione dei costi e dei vincoli (da tradurre in doveri) per le imprese e, soprattutto, un colossale spostamento di risorse dalla fase iniziale del percorso lavorativo a quella finale. Semplificando: si è tolto ai giovani per dare ai vecchi.
Quella operata sul mercato del lavoro, scrive Buquicchio, è una razzia di risorse a favore delle generazioni al potere senza nessuna preoccupazione verso le successive. Il giorno dopo la storica manifestazione in difesa dell’articolo 18 l’Unità titolò raccontando di “tre milioni di padri e di figli”. Qualche anno dopo solo poche decine di migliaia di figli hanno marciato contro il precariato. Quel giorno dov’erano i padri? È evidente che l’indebolimento della generazione dei trentenni è passato anche per la distruzione delle loro opportunità: indebolirli per tenerli a debita distanza. Poi c’è anche una ragione demografica, ineludibile.
L’Italia mette insieme due dati sicuramente decisivi per leggere le dinamiche della sua società. Da una parte è uno dei paesi con l’età media più alta del mondo. Dall’altra, è una delle nazioni con i più bassi tassi di natalità. Il «dominio» dei vecchi, a questo punto, appare come una conseguenza più che scontata. Come fanno i figli ad avere la forza e l’aggressività necessaria a capovolgere la situazione se non sono destinati a diventare a loro volta padri. Come possono ambire a spodestare i vecchi se non trasformandoli in nonni, quindi ufficialmente anziani. Quale rabbia sociale possiamo aspettarci da chi ha come esigenze solo quelle personali?
Potrebbero essere però proprio quelle esigenze personali a salvare i trentenni e i quarantenni. È vero che si tratta di un circolo vizioso – peggio vanno le cose, più è difficile risolverle – ma a un certo punto bisognerà toccare il famoso fondo, no? La nota risposta per cui a quel punto si comincia a scavare potrebbe non avere senso. Perché il fondo lo si toccherà davvero, con le mani, e a quel punto sarà una questione di sopravvivenza.
Quando le spese mediche dei nuovi quarantenni cominceranno a correre più dei loro guadagni (e si sommeranno a quelle dei loro vecchi), quando anche l’ultimo contratto a termine non gli sarà stato rinnovato e l’unica speranza di guadagno all’orizzonte (un orizzonte lontano oltre un decennio) sarà una pensione sociale di poche centinaia di euro, quando le risorse di due, tre generazioni, saranno a un passo dall’esaurirsi qualcuno o tutti forse alzeranno la testa e si guarderanno intorno per cercare di capire che cosa è successo in questi anni in Italia. Per la generazione dei figli sarà l’ultima occasione per entrare nell’età adulta, sottraendola ai genitori che l’hanno tenuta per sé, nel decadente sogno di eterna giovinezza che ha contribuito al disfacimento del paese […]. Fallito ogni tentativo di patto generazionale, per conquistare (finalmente) un ruolo sociale e traghettare il nostro paese fuori dalla tempesta, ai figli non resterà che sottoporre a un severo giudizio le responsabilità di chi ha condotto il gioco fin qui, le azioni e le intenzioni dei padri. Per farlo dovrà anche imparare a contrapporre uno slancio mitopoietico alle tante «narrazioni» che quella generazione ha saputo creare. Allora, forse, anche lo scontro politico e sociale non sarà più tra destra e sinistra. Il duello finale per la sopravvivenza (o, perlomeno, per una dignitosa sopravvivenza) sarà tra vecchi e meno vecchi.