Che fine farà Tirrenia?
La compagnia di navigazione italiana dai conti colabrodo è prossima alla privatizzazione, più o meno
“Se salta la privatizzazione, allora non cambia niente. Se non salta, non cambia niente. Qualsiasi strada prenda la Tirrenia, non cambia niente”. Vincenzo Onorato, presidente della concorrente Moby Lines, ha illustrato così la situazione in cui versa Tirrenia, la compagnia di navigazione italiana controllata dal ministero dell’economia e prossima alla privatizzazione. “Privatizzazione” però non è il vocabolo più adatto per descrivere quello che sta accadendo ed è a questo che fa riferimento Vincenzo Onorato, che in un primo momento si era detto interessato all’acquisto.
Ieri sono scaduti i termini per la presentazione delle proposte di acquisto. Dei sedici soggetti che avevano manifestato interesse, l’unica offerta ricevuta è quella di Mediterranea Holding, una società il cui socio di maggioranza relativa è la regione Sicilia. Qualora l’offerta – già definita “ricevibile” dal Ministero dell’Economia – dovesse andare a buon fine, Tirrenia passerebbe dalle mani dello stato a quella di una regione, più qualche socio privato di minoranza. La privatizzazione rischia di non cambiare granché in Tirrenia, quindi: nella sua gestione e nel suo modello di business. Il bando di privatizzazione del Tesoro offre infatti una dote di sussidi garantiti dal governo per i prossimi otto anni: 72,6 milioni di euro l’anno per Tirrenia e 55,6 – ma per dodici anni – per Siremar, la linea di navigazione regionale siciliana messa all’asta con la casa madre. In tutto si sfonda abbondantemente il miliardo di euro, e parliamo di una somma ancora da versare. La cifra già versata dai contribuenti per tenere in piedi Tirrenia è gigantesca: un miliardo e mezzo di euro solo dal 2000 al 2007, per colmare oltre duecento milioni di perdite l’anno.
Si tratta di aiuti di stato, certo. E infatti l’Unione europea strepita da anni: dichiara, rimprovera, diffida, multa, condanna. Senza alcuna conseguenza diretta se non quella di tenere alla larga gli investitori privati, che dopo un’iniziale interesse se la sono data a gambe. La questione dei finanziamenti in sé è complessa: se da un lato si tratta certamente di aiuti di stato, concorrenza sleale nei confronti dei molti operatori privati, dall’altro si rendono necessari per garantire un servizio pubblico efficace anche in bassa stagione agli abitanti delle isole. Poi c’è la vicenda della flotta, raccontata su Repubblica di oggi da Ettore Livini.
L’altra faccia degli sprechi di Tirrenia è la sua originalissima flotta. Una pattuglia di 44 mezzi – valore a bilancio 855 milioni con ipoteche bancarie per 245 – fatta di navi ad alta tecnologia ma con un’età media di 10 anni, unità veloci già vecchie di 12, traghetti (sono 28) che navigano da 25 anni, con tutti gli acciacchi anagrafici del caso. E, soprattutto sei gioielli della cantieristica italiana – costati 300 milioni di euro – mandati in disarmo (va da sé a spese dei contribuenti) poco dopo il varo. Il primo buco nell’acqua risale a inizio anni ’90: i trasporti marittimi stavano esplodendo. Le vecchie navi, lente e con le macchine caricate a volte dalle gru, non erano più attuali. E così Tirrenia ha deciso di voltar pagina ordinando ai Cantieri Rodriquez gli agili Guizzo e Scatto, due missili capaci di portare 120 auto e 450 passeggeri volando sulle onde a 40 nodi (quasi 70 all’ora). Peccato che una volta pagati e in acqua, i nuovi fiori all’occhiello del gruppo abbiano evidenziato un problema marginale: non erano in grado di viaggiare con il mare mosso. E così sono stati rapidamente messi a riposo.
Cinque anni dopo Tirrenia ordina altre cinque navi, da 110 miliardi di lire l’una. Le navi vengono consegnate, sono capienti, sono veloci, ma hanno un difetto.
Consumavano 290 kg. di gasolio al minuto contro i 41 degli altri traghetti del gruppo, rendendo assolutamente antieconomico il loro utilizzo. Morale: le quattro ammiraglie sono state prepensionate come carrette dei mari qualsiasi. E oggi sono ormeggiate a Genova, Arbatax e Napoli in condizioni precarie, con quattro marinai di servizio che provvedono ogni tanto ad accendere i motori tanto per oliare gli ingranaggi e gaudagnarsi il loro stipendio.
Le discutibili condizioni di servizio e mezzi sulle navi della Tirrenia non hanno bisogno di essere raccontate a molti dei suoi passeggeri. Ma al di là di queste e del bilancio colabrodo, ci sono altre due cose che rendono singolare e controversa la questione Tirrenia. Intanto il ruolo della regione Sicilia. Oltre a Siremar, compagnia regionale siciliana, esistono anche Caremar, Toremar e Saremar, compagnie rispettivamente di Campania, Toscana e Sardegna. Alla fine del 2009 queste compagnie sono state cedute a titolo gratuito alle regioni, per semplificare la gara d’appalto. Solo la Sicilia rifiutò di acquisire Siremar, in ragione del suo gigantesco indebitamento. Meno di sei mesi dopo la regione Sicilia guida invece una cordata che vuole acquisire sia Siremar che la stessa Tirrenia, i cui conti versano in condizioni disastrose. Perché?
La seconda cosa riguarda i vertici di Tirrenia, in particolare il suo presidente Franco Pecorini, in carica ininterrottamente dal 1984 e considerato l’ultimo dei cosiddetti “boiardi di stato”, i manager inamovibili di aziende pubbliche inservibili. Ventisei anni da presidente, ha passato indenne diciannove governi senza che nessuno lo mettesse in discussione. Gentiluomo del Papa, sedeva accanto a George W. Bush durante i funerali di Karol Wojtyla. Molti sono convinti che anche dopo la privatizzazione, il presidente di Tirrenia continuerà a essere lui. Oggi Alberto Statera lo definisce “il sub-comandante Franco”.
Nessuno è stato fin qui capace di scalzarlo. Non i governi, non gli armatori privati, che ne hanno la percezione di un invincibile Lucifero, di un Andreotti in sedicesimo padrone non delle tenebre del potere, ma dei flutti del Mediterraneo. Nessuno. Onore, allora, all’immarcescibile Pecorini, nei giorni in cui, con il ripescaggio in corso dell’ex presidente della Consob Lamberto Cardia, si torna a discutere dell’occupazione a vita dei posti di potere da parte di arzilli e famelici vecchietti, transavigatori di tutte le temperie della storia patria, mentre un’intera generazione di cinquantenni salta il suo turno e i loro figli ne salteranno due o tutti, a dispetto della retorica corrente sulla valorizzazione dei giovani talenti in un paese strutturalmente senile.