Perché si fa il gay pride
Il 27 giugno 1969, la polizia vessò per l'ennesima volta i clienti dello Stonewall Inn, a Manhattan
La prima volta, quarant’anni fa, erano cinquecento, senza neanche un megafono. In questi anni, tra le centinaia di migliaia di partecipanti alla marcia dell’Orgoglio Gay, qualcuno ha avuto da ridire sulla presenza di troppi grandi sponsor. A New York, ieri, c’erano il sindaco Bloomberg e il governatore Paterson. Ne hanno fatta di strada, in quarant’anni, i gay d’America, mentre a quelli di Italia ancora si vuole impedire anche solo di esserci. La marcia si tenne per la prima volta nel giugno 1970, e da allora ogni anno, nell’anniversario del 28 giugno 1969: il giorno degli scontri di Stonewall.
Quarant’anni fa non c’era nessun movimento gay in America. Le associazioni omosessuali si contavano sulle dita di una mano: si trovavano solo a San Francisco, Los Angeles, Washington e New York e avevano nomi mimetici, che eludevano la loro natura. I pochi omosessuali dichiarati che ne facevano parte chiedevano solo di esser lasciati vivere con le loro scelte senza venir discriminati sul lavoro o minacciati. Ogni millimetro di tolleranza guadagnata (tolleranza sdegnosa, “basta che non diano fastidio”) veniva visto da queste associazioni come un successo fragile, da non turbare con rivendicazioni che potessero urtare le sensibilità dominanti. Il Manuale diagnostico e statistico dell’Associazione americana di psichiatria definiva l’omosessualità come una malattia mentale. Non esisteva, nel 1969, nessun movimento per i diritti degli omosessuali, proprio mentre la questione dei diritti civili (per i neri, per le donne, per i poveri, per le minoranze in genere) raggiungeva la massima importanza negli Stati Uniti e in molte parti del mondo. Alle leggi contro l’amore omosessuale, sopravvissute a lunghissimo in alcuni stati, si aggiungevano norme di fatto che impedivano, anche a New York, il funzionamento di associazioni, locali, attività: le autorità spesso chiudevano un occhio salvo metter loro pesantemente i bastoni tra le ruote ogni volta che capitava.
La sera del 27 giugno 1969 era un venerdì, e lo Stonewall Inn era pieno come un uovo. Il locale di Christopher Street, nel Greenwich Village, era uno dei più noti locali gay di Manhattan, discretamente appartato dall’esterno e periodicamente tartassato dalla polizia con una scusa o l’altra. Era frequentato da pochi vistosi travestiti e molti anonimi clienti, soprattutto giovani, rassicurati dalla riservatezza del posto e dal fatto che la polizia portasse sempre via per prime le checche e desse loro il tempo di dileguarsi. Quel venerdì per i tavoli si piangeva la morte di Judy Garland, icona di femminilità sempre venerata dalla cultura gay, quando verso mezzanotte sei agenti della polizia di New York, quattro uomini e due donne, piombarono allo Stonewall con un mandato per controllare che non venissero venduti alcoolici, per cui i gestori non avevano mai ottenuto la licenza (fino a due anni prima nessun locale poteva servire alcoolici agli omosessuali, per legge).
Il mandato era pretestuoso, il reato tollerato in mille altri casi, ma era un’occasione per far tenere bassa la cresta ai locali gay. I poliziotti presero a distribuire minacce e rompere oggetti a colpi di manganello, e fecero uscire i clienti a uno a uno, fermando i travestiti. Ma quella sera qualcuno reagì. Non solo le solite energumene truccate e sui tacchi che volevano saggiamente sfuggire alla notte in cella: per la prima volta gli avventori resistettero all’intimidazione assieme, uomini e donne, gay e eterosessuali. Volarono bicchieri e sgabelli, i poliziotti furono presto in difficoltà e bloccati all’interno, mentre fuori una folla di centinaia di persone, in parte espulsi dal locale, in parte accorsi dai dintorni, resisteva all’arrivo dei rinforzi, accendeva falò e dava luogo ai tumulti da cui nacque il movimento gay americano. Gli scontri durarono un paio d’ore (nella notte, e la data simbolica è quella del 28 giugno), con alcuni feriti e una dozzina di arrestati sia eterosessuali che gay. I quotidiani newyorchesi (e persino il progressista Village Voice) riferirono l’accaduto con ironie volgarissime a base di “mascara che colava”, reggiseni, unghie laccate e “api regine che pungono”, rinforzando l’orgoglio degli insorti.
Nelle sere successive le manifestazioni davanti allo Stonewall ripresero e si scontrarono ancora con la polizia che voleva disperderle. Il seme era gettato, e dalle pavide e represse associazioni “omofile” si staccò nelle settimane successive un movimento più radicale di persone che chiedevano di avere i diritti degli altri (e che vennero accusati dalle prime di essere “comunisti” e voler compromettere il quieto vivere) e sceglievano per la prima volta di usare la parola “gay” per le loro rivendicazioni. Tra i volantini diffusi in quei giorni, uno diceva “Pensate che gli omosessuali siano disgustosi? Potete scommetterci il culo che lo siamo!”.
“Alla polizia sono sicuri di una cosa sola: sentiranno ancora parlare delle Ragazze di Christopher Street”, chiudeva la sua sarcastica cronaca il Daily News del 6 luglio.
Lo Stonewall è sempre in Christopher Street: è stato rilevato e riaperto nel 2007 dopo un anno di chiusura ed è stato dichiarato monumento nazionale. Ieri si sono tenute in America le marce del Gay Pride, inaugurate quarant’anni fa (e più di recente in tutto il mondo). In Gran Bretagna David Cameron e il suo vice Nick Clegg hanno accolto i rappresentanti dei movimenti gay a Downing Street. In Italia la marcia si è tenuta sabato a Napoli col sindaco Iervolino. In Islanda, il parlamento ha appena approvato la legge sul matrimonio omosessuale, e il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha sposato domenica la sua compagna. La marcia nacque quando i gay decisero di cominciare a menare le mani per i loro diritti. Lontani da essere ottenuti, ma ne abbiamo fatta di strada.