L’illusionista di Tati
L'autore di Appuntamento a Belleville ha fatto un nuovo film d'animazione con una storia scritta da Jacques Tati
di Francesca Barca
Sette anni dopo Appuntamento a Belleville (Les Triplettes de Belleville, Premio Oscar nel 2004) Sylvain Chomet torna al cinema. E ci torna nel momento del 3D con un film fatto a mano, basato su una storia scritta negli anni Cinquanta da uno dei più grandi mimi e rappresentanti del cinema “quasi muto” francese, Jacquet Tati: quello di “Mio zio”. L’opera, che il regista morto nel 1982 non aveva mai messo in scena, è stata proposta a Chomet dalla stessa figlia di Tati, Sophie Tatischeff, commossa dall’omaggio che Chomet aveva già fatto al padre in Appuntamento a Belleville, dove erano mostrati i manifesti dei suoi film.
Se già si conosce Tati, L’illusionista risulterà un film fatto con amore. Un film delicato, elegante, aggraziato. E un po’ goffo. Come lo era Jacques Tati e come lo era Monsieur Hulot, il suo personaggio. Un omaggio fatto con grande rispetto che rispecchia la poetica, la recitazione, e la fisicità di Tati.
Il film è la storia un illusionista, un mago di quelli “con il coniglio che esce dal cappello”, che vede come la sua arte un po’ alla volta perda attenzione, in un’epoca in cui il nuovo – in questo caso il rock’n’roll – che ha un altro ritmo, un’altra velocità e che porta con sé un altro mondo, arriva e ne prende il posto sulle scene. I personaggi sono quelli di Chomet, goffi e tristi, con corpi asimmetrici e strane anomalie. Rappresentanti, anche loro, della crisi che travolge l’illusionista: trapezisti, ventriloqui e, ovviamente, un clown depresso e alcolizzato. Retorica? Sicuramente, ma la retorica è anche grande atto di omaggio.
L’illusionista quindi parte e lascia Parigi per andare dove modestamente lo ingaggiano per i suoi spettacoli, che si tratti di un teatro a Londra o di un pub in Scozia. E parte con la sua valigia e il suo coniglio in una gabbia. E poi fa un incontro con una ragazzina, che lo costringerà a cambiare vita e a fermarsi un attimo di più a Edimburgo (era Praga nello script originale) per farle credere che la magia esiste. Il gioco non reggerà molto e il mago sarà costretto a lasciar perdere quel sogno.
Il film è quasi muto: i pochi dialoghi sono dati da qualche parola in francese, una lingua inventata che somiglia all’inglese e al gaelico, e la musica che Chomet stesso ha scritto. Un film realizzato “a mano”: se in Appuntamento a Belleville ci sono 1400 piani, in L’illusionista solo 400: che quasi quasi si può quasi parlare di “teatro filmato”. E il 3D? C’è, ma è usato con estrema parsimonia per i grandi piani del cielo e degli edifici.
L’illusionista è una sceneggiatura che risale agli anni Cinquanta. Pare che Tati non l’avesse realizzata perché non ci si riconosceva e perché non avrebbe potuto interpretarla lui stesso: aveva mani enormi ed era estremamente goffo, al punto che rompeva continuamente oggetti. L’opera era dedicata a sua figlia Sophie, che è morta poco dopo aver preso accordi con Chomet per la realizzazione del film. Un articolo dell’Observer dello scorso gennaio ha fatto però scoppiare una polemica: Helga Marie-Jeanne Schiel – figlia che Tati ebbe con una ballerina austriaca a Parigi negli anni Trenta per scappare all’Anschluss e che il regista rifiutò di riconoscere – dice che il film era dedicato a lei, estrema testimonianza della vergogna che Tati provava per quella vicenda e che Chomet avrebbe volutamente cancellato dal film.
L’illusionista è stato presentato al Festival Internazionale del cinema d’animazione a Annecy ed è uscito in Francia e Gran Bretagna il 16 giugno. In Italia dovrebbe arrivare a settembre distribuito dalla Sacher Film.