Il calcio è una metafa
È ricominciato il rito degli editoriali - qualcuno più sensato degli altri - secondo cui la nazionale di calcio è lo specchio del paese
Insieme ai mondiali e agli europei di calcio, ogni due anni c’è un altro appuntamento fisso che coinvolge una fetta di questo paese: quello degli articoli di giornale che trovano nelle prestazioni della nazionale la metafora della situazione del paese. Se l’Italia vince, è il simbolo della nazione operosa che trova sempre il modo di cavarsi fuori dai guai, che compensa il suo deficit tecnico con il cuore e l’inventiva. Se l’Italia perde, è il simbolo della nazione pigra e involuta, che vive del suo antico blasone, dell’arte e delle sue bellezze, ma che viene ormai sorpassata e surclassata da squadre – e nazioni – più giovani, talentuose e dinamiche.
Ci sono due circostanze in cui gli esercizi di questo tema si moltiplicano a dismisura: quando si fanno delle grandi vittorie e quando si prendono delle grandi batoste. Per questo è inevitabile che all’indomani di una partita come quella giocata ieri contro la modesta compagine della Nuova Zelanda, i giornalisti italiani si siano scatenati in un profluvio di articoli di questo genere (se poi dovessimo davvero essere eliminati al primo turno, bisognerà tirare su delle dighe). In ogni caso, bisogna essere bravi anche a fare un articolo di questo genere senza infilare troppe banalità o eccedere con la retorica, e oggi sulla Stampa Massimo Gramellini ci riesce piuttosto bene. L’utilizzo del calcio come metafora-della-vita ha stufato, così come l’idea della nazionale di calcio come specchio-del-paese: però stavolta la metafora di Gramellini funziona meglio delle altre, e quindi merita di essere ripresa. Il punto di partenza è la dichiarazione di Lippi subito dopo la partita, secondo cui “non abbiamo lasciato fenomeni a casa”.
Fra coloro che ieri davanti alla tv imputavano a Marcello Lippi di aver assemblato la sua mestissima Nazionale privilegiando i sudditi ai condottieri c’erano molti italiani che nella vita di tutti i giorni purtroppo si comportano allo stesso modo. Dirigenti d’azienda, titolari di negozi e responsabili di «risorse umane» che sul lavoro privilegiano la fedeltà al talento, l’affidabilità all’estro e il passo del pedone alla mossa del cavallo. Intervistati, risponderebbero anche loro come Lippi: «Non abbiamo lasciato a casa nessun fenomeno». Ma è una bugia autoassolutoria che accomuna quasi tutti coloro che in Italia gestiscono uno spicchio di potere e lo usano per segare qualsiasi albero possa fargli ombra: è così rassicurante passeggiare splendidi e solitari in mezzo ai cespugli, lodandone l’ordine perfetto e la silente graziosità.
Torniamo alla solita – ma amaramente vera – storia dell’assassinio del padre come gesto di emancipazione che manca alle persone di questo paese. Così lo diceva Umberto Saba: “Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi… Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”. Così lo riscrive Gramellini.
L’abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato «spirito di squadra». Ma è zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia. La Nazionale di Lippi assomiglia alla Nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri.
Parentesi nel commento tecnico, con Gramellini a dire che “contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d’ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell’Udinese, una ragione ci dovrà pur essere”. Una sferzata a Cannavaro – “che ha più o meno l’età di Altafini” – e si affronta un altro nodo, della nazionale e della nazione.
C’è, naturalmente, anche la questione dei giovani. La follia antistorica di questa Nazionale e di questa Nazione non consiste tanto nel continuare a lasciar fuori i Cassano, ma i Balotelli. Non i talenti troppo a lungo incompresi o compresi solo a metà, ma quelli ancora acerbi che chiedono solo un’occasione per sfondare e, non ricevendola, spesso emigrano in cerca di fortuna. Balotelli è il loro simbolo e non solo per via del colore della pelle, che ne fa l’italiano di domani. Lo è perché a vent’anni ha già vinto Champions e scudetti, e ha un fisico e un talento che ne fanno un predestinato, imparagonabile agli smunti replicanti dell’attacco azzurro. Eppure per lui non si è trovato un posto neppure nel retrobottega. Mi rifiuto di credere che un capufficio dell’esperienza di Lippi non sappia riconoscere la differenza fra un fuoriclasse potenziale come Balotelli e i bravi mestieranti che si è portato appresso. Ma il successo rende sordi al buonsenso. Ci si illude di poter vincere meglio da soli, muovendo pedine inerti sulla scacchiera. Poi quelle pedine si rivelano di burro e alla fine ci si ritrova soli, con un po’ di unto fra le dita.