I mondiali a Mfuleni
Una giornata in una township fuori Capetown, dove le cose migliorano ma molto lentamente
di Alessio Baù
Mercoledì ho celebrato la Giornata Nazionale della Gioventù del Sudafrica in un villaggio della cintura urbana a ridosso di Cape Town, a trentacinque minuti di macchina dalla città.
Mfuleni è una delle cosiddette township: aree abitate soprattutto da neri e indiani, fin dai tempi dell’apartheid. La politica del tempo stabiliva che fosse il governo a decidere dove determinati gruppi etnici venissero ammessi e altri no. Ancora oggi, a pochi chilometri dal centro di Cape Town, rimangono visibili interi pezzi di città inspiegabilmente vuoti: sono testimoni di una strategia di migrazione interna coatta che prevedeva l’abbattimento di alcuni quartieri residenziali per modellare in un senso o in un altro la composizione etnica del territorio.
A quaranta chilometri dalla capitale legislativa del Paese, Mfuleni è una delle township meno vecchie: fa parte della cosiddetta “Extension Six” e ha circa una quindicina di anni di vita. È sorta in seguito al collasso di altre township. Le persone della campagna che si spingono verso la città sono da anni in costante aumento: ricercano lavoro e migliori condizioni di vita. Così, spesso, cominciano a costruire una nuova quotidianità dagli shack, le baracche, che continuano a costituire una grossa fetta dell’architettura delle township. I programmi del governo sudafricano per la costruzione di edifici migliori (le Reconciliation Development Programme Houses, avviate da Nelson Mandela) e di servizi igienici minimi procedono molto lentamente. All’interno delle township si distinguono usualmente una parte di casupole arancioni o azzurre: sono le nuove abitazioni che stanno piano piano facendo posto ai ripari di fortuna costruiti nel tempo dalla popolazione più povera di Cape Town.
Ma il processo è estremamente complesso e il numero degli abitanti di quest’area non registra diminuzioni. Succede anzi che la popolazione del luogo ottenga dei permessi per ricostruire un’abitazione: ogni famiglia lo fa a proprie spese, letteralmente mattone dopo mattone. Quello che l’amministrazione locale è riuscita a garantire, a Mfuleni, è un servizio igienico per ogni shack, e due scuole: una elementare e una secondaria, dove insegnano professori di tutte le township dell’area. Non si tratta di una conquista da poco, visto che una delle emergenze del Paese è la generale povertà del sistema scolastico: nelle campagne succede ancora che i bambini debbano percorrere a piedi chilometri prima di raggiungere la propria scuola.
Per il giorno della commemorazione di Hector Pieterson, uno degli studenti vittima della repressione del regime del National Party, nel 1976 (erano i giorni della decisione di adottare solo l’afrikaans come lingua per l’insegnamento nazionale in Sudafrica), la township pullulava di persone che si preparavano a festeggiare con un braai, la carne alla brace. Giugno è un mese carico di significati importanti per il Paese: soprattutto, coincide con l’anniversario dell’elezione a presidente di Nelson Mandela. Che il lancio dei primi Mondiali di Calcio sudafricani sia avvenuto in giugno non è un caso, per la gente di Mfuleni: ogni abitazione è sintonizzata sul match del momento, in attesa degli amati Bafana Bafana, e si sono organizzate vere e proprie assemblee di paese – la township conta circa settemila abitanti – per seguire le dirette.
Mfuleni è interessante e diversa perché qui un gruppo di donne e di giovanissimi stanno cercando di fare la differenza sul fronte dei diritti, in particolare quello all’educazione. Il gruppo di donne è guidato da Nothemba e Ann, due energiche signore di sangue zulu che si presentano l’una con una bandiera del Sudafrica sulle spalle, l’altra con una maglietta con stampato il viso di Nelson Mandela e i colori nazionali, verde e giallo. Sulla t-shirt c’è scritto: “1990-2010, 20 Years of Freedom”.
Nothemba e Ann hanno costruito nella loro township un microsistema di solidarietà economica al femminile, per cui le singole aderenti al progetto, chiamato GOOI (che significa “mettere insieme”), versano una quota mensile che a turno viene concessa a una delle aderenti a seconda delle personali necessità del momento. Così, quando qualcuna ha bisogno di un sostegno economico lo può chiedere e ottenere facilmente (ogni sei mesi), per poi ridare la sua quota mensilmente e senza dover ricorrere all’aiuto degli uomini. Le due amiche curano anche un doposcuola e sono riuscite, con un gruppo di volontari bianchi di Cape Town, a realizzare un orto condiviso per l’istituto elementare del villaggio. I soldi li racimolano con piccoli lavori di artigianato.
Sono diventate un punto di riferimento per i giovani del luogo. Il messaggio che vogliono trasmettere a loro è “Umntu ngumntu ngabantu”: ovvero, “una persona diventa una persona attraverso gli altri”. La prima generazione di cittadini neri e coloured liberi dall’apartheid è diventata adulta e la richiesta che giunge da Mfuleni è che siano questi giovani a infondere nuova linfa ai partiti politici locali e nazionali. Per celebrare il sedici giugno il gruppo teatrale dei giovani della township ha scelto di raccontare della strada e delle sue storie, di presente e passato molto prossimo. Mi hanno invitato ad assistere alla messa in scena. Per narrare quelle che sono anche le loro biografie usano dei personaggi che chiamano “survivors”. Sono bravi, sul serio. Poi c’è stato lo spazio della commemorazione e quello più politico, in ascolto delle parole di un rappresentante dei Giovani Comunisti del Sudafrica.
La lotta dei giovani di questo Paese, oggi, non è più quella per il rispetto delle libertà democratiche. È quella combattuta per ottenere più scuole e più biblioteche in posti come Mfuleni. Nothemba continua a ripetere: “Niente arriva se non ci si impegna in prima persona per migliorare la vita nostra e del nostro vicino”. Ubuntu, “la comunità”, al centro. L’entusiasmo dei sudafricani è una boccata d’ossigeno. Le vuvuzela sono sparse in tutto il villaggio, ma qui non serve suonarle.