Un paese discontinuo
Non è facile capire quanto ci sia di sopruso e quanto di legittimo nelle richieste Fiat a Pomigliano, se non sei mai entrato in una fabbrica
di Filippomaria Pontani
Dinanzi alla vertenza di Pomigliano, molti di noi restano in balía di una sensazione di incertezza, di inadeguatezza a giudicare su basi che non siano di principio, o se vogliamo ideologiche; del resto, quella del movente “ideologico” è ormai l’accusa più frequentemente rivolta a chi eccepisce dinanzi agli uomini del fare, o dinanzi al fare degli uomini. La ragione – forse non l’unica – è semplice: molti di noi non sono mai entrati in una fabbrica (io ho solo vaghi ricordi di uno spaccio aziendale, in cui mia nonna – operaia alla SNIA – mi portò quand’ero piccolo), e delle dinamiche di quei luoghi posseggono una contezza essenzialmente giornalistica, letteraria o cinematografica (da Dickens alla “Fabbrica dei Tedeschi”): la fabbrica rimane per tanti versi uno spazio estraneo, e violare la sua “clausura” (in termini foucaultiani) è molto arduo sul piano materiale come su quello ideale.
Ci si parla – lo sentiamo in queste ore – di assenteismi impuniti, di malattie inventate ad arte, di sprechi da correggere, di produttività da intensificare per reggere il mercato, e dietro a questi slogan fatichiamo a discernere, nella prassi concreta, il meccanismo – pure, lo sentiamo, chiaramente operante – di destrutturazione dei diritti basilari dei lavoratori, faticosamente conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta (alle quali per inciso la sullodata nonna, mitissima devota aliena da ogni simpatia per la sinistra e il sindacato, partecipò con convinzione).
Allora vi racconto una storia diversa ma nella sostanza affine, tratta da un ambito forse più familiare a molti lettori, non foss’altro perché si tratta dello spazio aperto par excellence, l’Università. È un’ovvietà – mai adeguatamente ribadita – che gli Atenei non si reggono soltanto sulle forze intellettuali che vi lavorano, ma necessitano per il loro funzionamento di un adeguato personale tecnico e amministrativo che si curi delle strutture ad ogni livello. Lasciamo stare per oggi i colpi ferali che i tagli di Tremonti e Gelmini hanno inferto a questo delicatissimo settore, impastoiando il lavoro quotidiano di molti ricercatori tramite “razionalizzazioni” sistematicamente a perdere.
Parliamo invece di persone. Parliamo di un manipolo di uomini e donne che fino al novembre scorso esercitavano da anni – e con unanime soddisfazione, loro e altrui – il mestiere di portiere presso l’ateneo di Ca’ Foscari a Venezia: si tratta di cinquantatré persone che per una paga oraria molto modesta (certo inferiore a quella di qualunque colf, e pari forse a 1/5 delle più economiche ripetizioni private) aprivano e chiudevano le sedi, vigilavano sugli accessi, rilasciavano informazioni a tutti gli avventori (anzitutto gli studenti), rispondevano al telefono come centralino di ogni singola sede, smistavano e consegnavano quotidianamente la posta, aiutavano docenti e studenti nella gestione del materiale didattico e delle apparecchiature, preparavano aule, allestivano bacheche, controllavano gli studi, segnalavano guasti, manutenevano e intervenivano sulle “attrezzature di supporto all’attività didattica”: le loro mansioni stanno scritte (e, posso garantirlo, non erano affatto lettera morta) nel capitolato per l’affidamento del servizio emanato dall’Ateneo nel 2008.
L’affidamento del servizio: già, perché in questo caso – come in molti altri – l’Ateneo si serve dell’outsourcing, ovvero non arruola dipendenti propri (come avveniva un tempo, e come pure, alla luce delle recenti esperienze, alcune sensate amministrazioni universitarie tornano a fare), bensì bandisce una gara d’appalto. L’ultima se l’aggiudicò nel marzo 2008 la cooperativa Biblos, cui appartenevano i 53 lavoratori di cui sopra, a premio sulla ditta ATI Il guerriero – Prodest, che venne esclusa dalla gara perché, pur offrendo un prezzo inferiore, introduceva per il servizio la tipologia del “lavoro discontinuo”. Cos’è il “lavoro discontinuo”?
È un meccanismo introdotto da un regio decreto del 1923 (06.12.1923, n. 2657), che prevede che tutta una serie di figure lavorative, soggette per la natura del loro mestiere a tempi di attesa improduttivi, ricevano una remunerazione inferiore in considerazione di tali pause “morte”: l’esempio classico è quello del custode o portiere di condominio (una figura in via d’estinzione, ma ancora ben familiare, per esempio, ai numerosi aficionados di “Un posto al sole” su RaiTre), che sta tutto il giorno in guardiola ma per lunghi tratti non ha nulla a cui badare.
Anche a voler tralasciare ogni considerazione circa la congruità del Regio decreto alla situazione degli odierni portieri di condominio, non è chi non veda quanto poco la tipologia del “lavoro discontinuo” si applichi ai portieri di un’università. E infatti – direte voi – la ditta che aveva proposto di introdurla è stata giustamente estromessa dalla gara. Ma la storia non finisce qui: quella ditta, l’ATI Il Guerriero-Prodest, ricorre contro l’esclusione prima al TAR (che le dà torto) e poi al Consiglio di Stato, che il 9 gennaio del 2009 – al rientro dalle vacanze natalizie – le regala il suo assenso. Supero la gragnuola di ulteriori contenziosi e ricorsi che hanno costellato il 2009: fatto sta che l’Ateneo, invece di far muro contro una simile contrattualizzazione (che oggettivamente contravviene ai termini del capitolato), il 7 ottobre scorso stipula il contratto con l’ATI, posponendo poi l’ingresso in servizio dell’impresa al 1 dicembre, ovvero scaricando di fatto la patata bollente al nuovo Rettore, in carica dal 1 novembre (il precedente, largamente corresponsabile del pasticcio, è ora capofila dell’Italia dei Valori in Consiglio comunale, nonché assessore della giunta Orsoni).
Il seguito è prevedibile: i dipendenti della Biblos non accettano di entrare al servizio dell’ATI (di fatto passando da 6 euro l’ora a 4, e perdendo una serie di garanzie in grazia del declassamento professionale a “discontinui”), l’ATI entra il 1 dicembre assumendo sotto costo nuovo personale disposto a sottostare a condizioni iugulatorie (persone splendide, che oggi svolgono le medesime mansioni dei loro predecessori con ammirevole solerzia e retribuzione ben minore), e i 53 dipendenti si trovano a casa con un sussidio di disoccupazione, che è peraltro appena scaduto.
Esiste un giudice a Berlino? Sì, esiste; ma non basta. Il Tribunale del Lavoro ha sentenziato per ben due volte (il 9 marzo e il 28 aprile) che la tipologia del lavoro discontinuo non è congrua alle mansioni di portierato a Ca’ Foscari, e che dunque i 53 devono essere riassunti. Tuttavia, da mesi l’ATI non esegue la sentenza (propone anzi, sagacemente, di riassumere bensì i lavoratori, ma a Milano, non a Venezia), e l’Università, che si trova in una posizione oggettivamente delicata, traccheggia: il rettore sul suo blog annuncia spritz collettivi e sacrosanti premi alla ricerca, ma purtroppo non aggiorna nel dettaglio sull’andamento di questa complessa vicenda (anzi, de facto allunga l’orario di apertura della Biblioteca servendosi del medesimo personale ATI già sottoposto a turni massacranti). Nel frattempo, da mesi i 53 rivendicano i loro diritti (sanciti da un Tribunale, lo ricordo) manifestando, occupando il Rettorato, occupando il Consiglio comunale (è accaduto lunedì), ricevendo solidarietà da docenti, assessori e perfino dal sindaco Orsoni, nella cui mediazione si confida per una risoluzione della vertenza. Chi volesse ulteriori dettagli li trova qui e qui.
Ho raccontato questa storia non per aggiungere un caso pietoso alla lunga lista delle vittime delle esternalizzazioni all’italiana, né per sostenere che il mercato del lavoro debba rimanere immobile in perpetuo. L’ho raccontata per due motivi: perché penso che dia un’immagine plastica della direzione che sta prendendo la prassi della disciplina del lavoro nel nostro Paese, anche senza arrivare alle violazioni costituzionali che in molti ravvisano a Pomigliano; e perché quello che capita oggi ai portieri dell’Università capiterà domani (già vi sono precisi indizi in tal senso) agli stagionali della Biennale, ai dipendenti dei Musei Civici, e a mille altri lavoratori – più o meno precari – del Veneto e dell’Italia, che non sono operai.
I Musei Civici, dimenticavo: sbarca oggi in Laguna il nuovo Soprintendente, il dott. Vittorio Sgarbi, condannato nel ’96 in via definitiva a 6 mesi di carcere per assenteismo, falso e truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato: tanti anni fa, quando era ancora in Soprintendenza, si assentava dal lavoro producendo documenti falsi. Evviva.