I diavoli di Zonderwater
L'epopea tragica e formidabile del campo di concentramento sudafricano in cui a guerra finita vennero rinchiusi 94 mila italiani
È uscito un bel libro che si intitola “I diavoli di Zonderwater” e, come spiega Gian Antonio Stella nella prefazione, “racconta l’epopea tragica e formidabile del campo di concentramento di Zonderwater, in Sudafrica, dove dal 1941 al 1947, a guerra finita da un pezzo, vennero rinchiusi complessivamente 94.000 prigionieri italiani che sopravvissero agli stenti e alla nostalgia anche grazie allo sport” (il sottotitolo è “La storia dei prigionieri italiani in Sudafrica che sopravvissero alla guerra grazie allo sport”). L’autore del libro è Carlo Annese, giornalista, e l’editore Sperlimk & Kupfer. Questo è il prologo.
Faceva caldo là sotto. Un caldo rancido, di corpi stremati, sconfitti, oltraggiati. Quanti erano? Mille, forse duemila, accalcati sotto la prua. Altri cinquecento, mescolati ai sottufficiali, stavano ammassati a poppa. Gli ufficiali, invece, navigavano in terza classe, con le divise lucide, scosse dalla sabbia accumulata sul fronte di Tobruk, a Bardia o a Beda Fomm. «Noi, no. Noi eravamo la truppa, gente da stiva», racconta oggi Aldo Ferrari, soffiando il fumo di una sigaretta, la terza del mattino, a novantaquattro anni, come se il disagio e l’umiliazione di quei giorni fossero ancora vivi e non vecchie medaglie arrugginite appese al bavero della memoria.
Viaggiavano sull’Ile de France, un transatlantico francese che nove anni prima, nel 1933, era stato sconfitto dall’italiano Rex nella gara per il Nastro Azzurro, il riconoscimento assegnato alla nave passeggeri più veloce nell’attraversare l’Atlantico. E lo stesso che, molto tempo dopo, nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1956, avrebbe recuperato 750 naufraghi dell’Andrea Doria al largo di Nantucket, in una delle più memorabili operazioni di salvataggio in mare della storia. Durante la seconda guerra mondiale, l’Ile de France trasportò qualcosa come 600.000 soldati, in buona parte prigionieri, solcando gli oceani, da Freetown a Liverpool, dal Capo di Buona Speranza a Bordeaux. Quella volta, ne aveva imbarcati a Port Suez circa 4.000, appartenuti all’esercito di Benito Mussolini, catturati dagli inglesi in Africa Orientale e poi rinchiusi per mesi in Egitto e in Palestina, dentro «gabbie» circondate da reticolati: alle prime ore del mattino del 4 settembre 1942, un cupo venerdì di fine inverno, stava entrando nel porto di Durban, in Sudafrica.
Non fosse stato per quel traffico di uomini prostrati dalla fame e da un viaggio di due settimane in un mare sempre in tempesta, la città non mostrava alcun segno del conflitto in corso. Lunghe spiagge sabbiose, una banchina enorme e quasi deserta, davanti alla cresta verdeggiante di una collina, punteggiata da ville e giardini di palme. E poi automobili, palazzi immersi nel sole e ampie strade che cominciavano lentamente ad animarsi. Tutto sembrava incontaminato. Il Sudafrica era lontano dalle ridotte della Libia o dai fronti dell’Etiopia dove si combatteva, irraggiungibile dagli aerei tedeschi e dai pochi velivoli italiani ancora in attività. Era entrato in guerra a costo di profonde lacerazioni interne, che il 4 settembre 1939 avevano portato alle dimissioni del premier James B.M. Hertzog, un nazionalista boero fautore della neutralità, e alla sua sostituzione con il generale Jan Christiaan Smuts, un interventista di formazione britannica. Fin dall’inizio aveva fornito uomini e mezzi, ma il suo contributo più importante era dovuto proprio alla posizione geografica: si era rivelato il luogo più adatto nel quale trasferire migliaia di militari costretti alla resa, il cui numero sarebbe presto cresciuto ben oltre le previsioni iniziali.
«I sudafricani erano organizzati molto meglio di noi», continua Aldo Ferrari, che era stato catturato il 17 gennaio ’42 a Passo Halfaya, l’estremo caposaldo italiano caduto nella seconda controffensiva inglese nella Marmarica, un’area desertica ora divisa fra l’Egitto e la Libia. «Ci fecero sbarcare e, tra grida e spintoni, ci fecero correre fino alla stazione, dove saremmo saliti su un treno merci diretto a Pietermaritzburg, l’ennesimo campo di smistamento, a pochi chilometri da Durban.» Gli italiani ne avevano già visti tanti, prima di allora, di campi come quello. A Geneifa, a Helwan, a Sollum. Ferrari, per esempio, era partito da Alessandria d’Egitto, in mezzo alle urla di: «A morte! A morte!» degli arabi, che avevano mostrato con accanimento il pollice verso. Aldo ne era rimasto turbato e lo aveva confidato al caporal maggiore della sua compagnia del genio trasmissioni, Ruggero Saggiani: «Caporale, avete visto? Questi ci vogliono fare la pelle». «Stai tranquillo. Tu resta sempre accanto a me, vedrai che ce la caveremo», lo aveva rincuorato l’altro. Saggiani non era solo il suo diretto superiore, era anche un vecchio conoscente. Più anziano di cinque anni, aveva giocato spesso a calcio contro di lui, quando Ferrari era il mediano della squadra di Sermide, un paese del Mantovano sulla sponda destra del Po. Aldo aveva debuttato a diciassette anni, nel 1932, in prima divisione, la stessa categoria di quella attuale. Aveva giocato nel Castelmassa, sulla riva opposta del fiume, dove i proprietari italoamericani della FRAGD, una fabbrica in cui si ricavavano fecola e amidi dal mais, avevano investito un po’ di capitali nel pallone, retrocedendo però quasi subito. Poi era stato ingaggiato dal Manfredonia, in provincia di Foggia, dove aveva resistito una decina di giornate prima di andar via senza avere mai ricevuto una lira da un presidente che a ogni trasferta gli donava piuttosto un pacchetto di sigarette, tanto per respirare meglio. Tornato a casa, Ferrari era diventato titolare della formazione del suo paese e nel ’36 aveva disputato un’amichevole contro il Bologna, lo squadrone del momento, vincitore di due scudetti consecutivi, allenato dal geniale Árpád Weisz, che sarebbe poi stato costretto a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali. Di quella partita, Aldo portava un ricordo nello zaino militare: una fotografia in cui era ritratto accanto a Felice Gasperi, il «terzino volante» dei rossoblu.
Il calcio, insomma, era stato la sua vita. Figlio di un dipendente di uno zuccherificio industriale, Ferrari si era mantenuto da solo con il denaro guadagnato con il football e aveva anche trovato un impiego che gli dava il tempo di allenarsi. Fino a quando era stato richiamato alle armi, nel marzo del 1940. «Allo scoppio della guerra, ero in una caserma di Castiglione delle Stiviere», racconta. «Fummo mandati per alcuni mesi a svernare a Bogliasco, prima di una breve licenza. E alla fine del ’41 partimmo da Napoli per la Libia: credevamo di trovare in Africa il materiale e i mezzi che avevamo spedito con un’altra nave, e invece era stato requisito tutto dagli inglesi.»
Dopo la cattura, nulla faceva pensare che il calcio avrebbe consentito ad Aldo o a chiunque altro di sopravvivere anche durante la prigionia. Solo per un ragazzo con due vispi occhi chiari e due baffetti sottili, che a Durban era sbarcato subito dietro Ferrari, il pallone era ancora una speranza, sia pure remota, coltivata con un inesauribile ottimismo. Si chiamava Giovanni Vaglietti, aveva ventun anni ed era stato catturato poche ore dopo il capodanno del ’42 a Bardia, un altro nome tristemente famoso della fallimentare campagna italiana in Africa Orientale, dove era addetto alle comunicazioni con una centralina telefonica che trasformava i segnali radio in impulsi luminosi.
Vaglietti era nato a Settimo Torinese e aveva trascorso l’adolescenza a Cuorgnè, nell’Alto Canavese, in un istituto dei salesiani. Ultimo di tre figli, aveva perso la madre a due anni. Il padre, titolare di una ditta che realizzava l’elettrificazione di paesi e cascine nel Monferrato, si era risposato con una vedova di guerra, a sua volta mamma di una bambina. Giovanni era molto vivace, troppo perché in quella nuova famiglia più numerosa ci si potesse occupare di lui: per questo, a otto anni, era stato mandato in collegio. Si era diplomato al liceo, aveva frequentato la facoltà di Giurisprudenza e intanto aveva giocato a calcio. Ma non in una squadra qualunque: vestiva la maglia del Torino. Aveva fatto parte del vasto serbatoio giovanile che la società granata aveva avviato nel 1932 reclutando i giocatori più promettenti del Piemonte e accogliendo in un «college» quelli provenienti dal resto d’Italia. Erano soprannominati Balon Boys (definizione che conteneva anche la versione torinese della parola pallone, balon), in onore di Adolfo Baloncieri, una delle prime leggende del club: da quel gruppo erano venuti fuori alcuni titolari della squadra maggiore, come Allasio, Ellena e Gallea.
Giovanni era arrivato fino alle soglie delle prime riserve e probabilmente vi sarebbe entrato se non ci fosse stata la guerra. Ne portava le prove sempre con sé. In un portafogli di pelle, che teneva sul cuore in una tasca della camicia, conservava un cartoncino azzurro con una sua foto da adolescente: l’espressione gentile, educata, tutt’altro che dimessa, i capelli corti e un volto aperto, che si assottigliava fino al mento, appena irregolare. Sotto l’immagine, la scritta «Tessera N.» e la stampigliatura «21». Nella riga inferiore, in piccolo, 1937 – XV° – 1938 – XVI°, dove i numeri romani stavano per gli anni progressivi dell’era fascista. Accanto, a destra: A.C. TORINO GIOCATORE Signor Vaglietti Giovanni Tesserato per l’A.C. Torino con Cartellino Federale N. 15767 In calce, la firma del presidente, Giovanni Battista Cuniberti. Grazie a quel cartellino, si era fatto un nome tra le «gabbie» di Geneifa. In un paio di partitelle improvvisate, nei rari momenti liberi concessi dalle arcigne sentinelle scozzesi, aveva mostrato colpi di classe scintillante, guadagnando grandi pacche sulle spalle, il rispetto di tanti prigionieri e anche qualche scodella di cibo in più. In Sudafrica, però, avrebbe dovuto ricominciare da zero e chissà se il pallone, santo pallone, aveva pensato, gli avrebbe dato una mano.
Il treno partito da Durban attraversò un panorama rigoglioso, con piantagioni di banane e distese di palme dai lunghi aghi appuntiti. Arrivati alle porte di Pietermaritzburg, che in passato era stata la capitale della regione del Natal (ora KwaZulu-Natal), i prigionieri furono fatti entrare di corsa in un campo di tende, recintato dal filo spinato. Sfiancati dalla fame, mentre cominciava a piovere, vennero divisi per file. Ebbero l’ordine di spogliarsi delle divise, lerce e piene di pidocchi, di raccoglierle in un fagotto e affidarle alle guardie. Furono completamente rasati da quattro commilitoni promossi seduta stante al ruolo di barbieri, impiastricciati con uno spesso strato di sapone e spinti sotto un getto d’acqua gelida. Infine vennero cosparsi di creolina, un denso liquido bianco così simile al latte che qualcuno fu anche tentato di bere.
Fuori dalle docce, attesero nudi per quasi un’ora, sotto la pioggia, che gli abiti consegnati all’inizio fossero sterilizzati in un’autoclave. Una volta rivestiti, ricevettero un cucchiaio, una bacinella con del brodo caldo e una fetta di pane spalmato con due dita di un immangiabile burro di arachidi. Debilitati e smarriti, trascorsero quattro giorni sdraiati sotto le tende nel tentativo di recuperare un po’ di forze, prima di mettersi di nuovo in marcia. Avrebbero viaggiato ancora in treno, ma questa volta in scompartimenti normali. Destinazione: Zonderwater, a 600 chilometri di distanza. «Vedrete, lì starete bene», aveva detto un tenente medico che li aveva visitati sommariamente. Giovanni Vaglietti, però, non aveva capito se avrebbe dovuto fidarsi del sorriso con il quale l’ufficiale aveva condito quella frase. Temeva, infatti, che avesse voluto irriderli, avendo sentito circolare nel frattempo le descrizioni più strane del luogo dove sarebbero stati rinchiusi. Aveva saputo, per esempio, che Zonderwater si trovava poco lontano da Cullinan, una cittadina nella quale all’inizio del secolo era stato trovato il diamante più grosso del mondo. «Non vorranno mica mandarci in miniera!» disse Giovanni a un paio di commilitoni, che avevano abbassato gli occhi, preoccupati.
Lui aveva preso posto vicino a un finestrino. Altri compagni, invece, facevano la spola tra i sedili e le toilette: a Pietermaritzburg, avevano bevuto per disperazione l’acqua piovana raccolta vicino alle tende e ne erano rimasti intossicati. La ferrovia fendeva montagne e improvvise pianure aride. Incrociava villaggi ordinati, nei quali la differenza tra i bianchi, indaffarati ed eleganti, e i neri, molto più dimessi e poveri, si notava anche a uno sguardo rapido e distratto. E mentre il treno arrancava, in mezzo alla vegetazione Giovanni aveva intravisto antilopi, struzzi, buoi dalle corna enormi e una grande quantità di uccelli dai colori bellissimi: un paio di questi, con il manto blu smeraldo e il becco lungo, avevano volato così vicino a lui che li avrebbe potuti toccare. Appena fuori da una galleria, cominciò a distinguere in lontananza un accampamento di tende chiare, perfettamente allineate su un altopiano vastissimo. Più il treno si avvicinava, più la distesa diventava impressionante, infinita, brulicante di persone. Il terreno si sollevava leggermente sulla destra: anche lì, delimitati dal filo spinato, apparivano decine di coni bianchi. Sulla sinistra, invece, si distingueva un gruppetto di baracche di legno, davanti alle quali Giovanni notò uno strano movimento. Si sollevò di scatto dal sedile e appoggiò il naso al finestrino. «Ehi, ehi. Guardate», richiamò gli altri, piegati dai crampi allo stomaco. «Quello dev’essere Zonderwater.»
Mentre il cuore gli batteva più forte, mise a fuoco la scena. Vide i pali di una porta di calcio. Una dozzina di uomini che correvano. E un pallone. Con la mano destra si accarezzò la tasca che conteneva il portafogli. Come faceva nei momenti importanti della vita, pensò in torinese, ad alta voce: «Mi sun fait. Io sono salvo».