“Ti ricordi di Franco da Firenze?”
Lo storico Franco Cardini cerca il suo amico d'infanzia Francesco Guccini, dalle pagine del Secolo, alla vigilia del compleanno
Franco Cardini è un grandissimo storico e saggista, uno dei più importanti medievisti del mondo, noto anche “al grande pubblico” per le sue apparizioni televisive da osservatore della politica italiana e da intellettuale di destra eterodosso. È nato nel 1940 e compirà settant’anni tra due mesi. Dopodomani, invece, compie settant’anni Francesco Guccini, che è quindi quasi suo coetaneo: e sulla prima pagina del Secolo oggi Cardini celebra sia il cantautore di cui seguì i concerti con un gruppo di fan di destra, “brutti anatroccoli”, sia un suo amico d’infanzia che frequentò sul “grande spiazzato erboso davanti alla chiesa, a Pàvana”, chiedendosi se siano – come immagina – la stessa persona.
Chissà se Francesco, un ragazzo della mia età (tutti e due del ’40: nato il 14 giugno lui, d’agosto, il 5, io…) si ricorda del ragazzo fiorentino, “villeggiante” – una parola modesta, che allora, nell’immediato dopoguerra, sembrava evocar sontuose permanenze… – che giocava con lui a biglie di vetro e che lo accompagnava per le passeggiate nei boschi. Magro anche lui, un po’ più alto di me, con un cognome di quelli toscoemiliani dalla desinenza in -ini, come il mio. Mi sono chiesto spesso se quel Francesco abiti ancora là, se sia ancora vivo e in buona salute: se soprattutto sia proprio lui, quel Francesco da Pàvana divenuto poi poeta e bevitore, bandiera di chi “non ci stava” tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, che non ha mai fatto i soldi ma che perdinci nessuno come lui riusciva a riempire nelle notti d’estate la Piazza Maggiore di Bologna, là “tra la Via Emilia e il West”. E nessuno come lui riesce ancora a esprimer quel che ci sentiamo dentro, la rabbia e la delusione, l’amore e la speranza.
Il racconto di Cardini si apre con una commossa ricostruzione delle sue estati da bambino fiorentino in collina, e poi si sposta sul ritratto del giovane (presunto) Guccini, e sui “brutti anatroccoli”, appunto.
Ci sono andato anch’io a sentirlo, saranno quarant’anni fa, in quelle notti in cui la rivoluzione sembrava a portata di mano e dietro l’angolo, tra i fiaschi di vino e gli amori improvvisati eppure a modo loro intensi e sinceri, tra le facoltà occupate e le feste delle matricole, quando entrambi avevamo barba ancor nera o castana e portavamo un «eskimo innocente / dettato solo dalla povertà» (ma anche una coscienza immacolata, come te). Eravamo brutti anatroccoli anche come tuoi fans, Francesco, noialtri minuscola pattuglia di “neri dal cuore rosso”: non avevamo ancora trovato i Paolo Buchignani, gli Antonio Pennacchi e gli Ivan Buttignon che avrebbero cercato di capirci o farci oggetto di studio. Noialtri nipotini di Berto Ricci, di Ezra Pound e di Pierre Drieu la Rochelle sognavamo Lawrence d’Arabia, José Antonio e i piani di Castiglia, Berlino in fiamme, Budapest insanguinata, doña Evita e il comandante Ernesto Che Guevara («Aprendimos a quererte…»): se ci fossimo incontrati e parlati, forse sarebbe finita a manate, forse a lacrime e abbracci. Non c’è il tuo profilo, in Fascisti immaginari (Vallecchi): io lì l’ho cercato invano, tra “Golpe” e “Hobbit”. Peccato. D’altra parte, chissà, forse ti ci saresti trovato a disagio. Magari – per dirla con le tue parole – ci avresti «sputato addosso», anche se noi «compravamo i tuoi dischi». Eppure almeno una volta il sospetto di essere dei nostri, o che noi eravamo dei tuoi, è venuto anche a te («…io anarchico, io fascista…»). Noi, d’esser dei tuoi, in fondo abbiamo sempre avuto la profonda anche se indimostrabile consapevolezza.
Cardini chiude la sua lettera col dubbio. Dopodomani è il compleanno di Francesco Guccini: il Post (che fa gli auguri!) suggerisce una telefonata.
Chissà se eri davvero tu, là sotto il grande faggio che forse era un castagno, intento nel gioco delle biglie di vetro cinquantasette anni fa: eppure le date tornerebbero, tante altre piccole cose anche. Ti ricordi di Franco da Firenze? Ora viviamo la stagione della vita che una volta si aveva la dignità e il coraggio di chiamar vecchiaia; e sentiamo che il tempo si assottiglia, diventa più duro da percorrere eppure forse per questo più prezioso. E andiamo allora alla ricerca del tempo perduto: come abbiamo fatto sempre, solo che ora sappiamo di farlo.