Come diventare scrittori inutili
"Chi voglia diventare scrittore inutile, non ha che da esercitarsi; è raccomandato l’esercizio dei vizi"
Esce oggi per Guanda la nuova edizione di “Gli scrittori inutili” di Ermanno Cavazzoni. Ecco le prime pagine e uno dei capitoli.
Avvertenze per l’uso del libro
Chi voglia diventare scrittore inutile, non ha che da esercitarsi. Ed è raccomandato l’esercizio dei vizi, che sono sette; occorre insistere in ciascuno di essi fin che improvvisamente non si apre una nuova visuale e si resta lì muti, molli e incapaci del tutto.
Ma poiché non è facile a volte diventare anche solo scrittori, ci sono per questo le scuole. Una scuola di scrittura che si rispetti introduce al vizio l’allievo; perciò le scuole saranno formate da sette docenti, essendo sette le materie insegnabili. Per compilare il manualetto che segue un allievo principiante si è sottoposto a sette lezioni (di lussuria, gola, avarizia, accidia, invidia, ira e superbia), le quali sono state fedelmente trascritte affinché chiunque in futuro se ne possa liberamente giovare.
Ma neppure è facile diventare inutili, per quanto si studi, ci si applichi e ci si ingegni; a meno che la vita con le sue evenienze non ci venga in soccorso. E le evenienze si è appurato che sono sette: le scuole che si frequentano, le famiglie da cui si viene adottati, le angherie patite, le speranze che sfumano, i fantasmi che vengono in visita, i vagabondi che si finisce per essere e le demenze da cui non si scampa. Se si combinano i vizi con le evenienze si hanno esattamente quarantanove casi possibili, che sono quelli appunto qui raccolti e ordinati.
Per la consultazione rapida del manualetto, onde un individuo qualunque, trovando l’esempio, possa farsi scrittore e rendersi in seguito inutile, diamo la sottostante tabella o indice ragionato, dove il numero rimanda al capitolo.
Le case editrici hanno stanze secondarie nell’ammezzato dove c’è un letto in cui vive nascosto uno o più scrittori. Le case editrici hanno interesse ad appropriarsi degli scrittori e renderli docili. Per fare questo prima li esaltano poi li deprimono, finché gli scrittori hanno voglia di farsi frate, o in subordine hanno voglia di un po’ d’ospedale. Allora si rivolgono alla casa editrice che li ricovera nell’ammezzato e li tiene entro la propria giurisdizione. Una casa editrice ne può mantenere parecchi perché uno scrittore depresso viene a costar poco; sta al buio e accende la lampadina di rado, si lava con parsimonia, mangia poche cose, anche di scarto, si mette vestiti di scarto. La depressione lo fa sentire superfluo. Le case editrici hanno tutto l’interesse a far restare gli scrittori in depressione, perché uno scrittore euforico non è governabile, consuma corrente elettrica, acqua calda, gas, vuole andare a teatro, non vuole gli abiti usati. E poi scompare entro altre case editrici a combinar tradimenti, a promettere esibizioni, o anche solo a corteggiare le altrui redattrici, o a usare il telefono gratis.
Uno scrittore stava chiuso da alcuni anni nell’ammezzato, pensando che la casa editrice volesse solo il suo bene. Infatti mandava ogni tanto una signorina che entrava cauta e si informava della salute; diceva frasi piene di discreto riguardo: « La casa editrice chiede come si sente; la casa editrice chiede se ha avuto oggi la sua spremuta ». Tali visite avvenivano di sera, o al mattino prestissimo, quando lo scrittore era a letto. La signorina si sporgeva dall’uscio: « Si può ? » sussurrava e si chinava sullo scrittore; ma più spesso lo scrittore la intravvedeva seduta sul bordo del letto mentre diceva cose insignificanti: « Oggi in ufficio abbiamo preso il tè, l’editore aveva portato i biscotti. Oggi siamo usciti un po’ prima. Oggi è il ventuno marzo, nessuno aveva voglia di lavorare ». Veniva anche una signorina diversa: questa gli carezzava le mani, si sdraiava sul letto vestita, mentre lui dormiva, e gli dormiva accanto per una mezz’ora, lui sotto le lenzuola lei sopra. E una terza signorina gioiosa lo faceva stare allegro; arrivava con il caffè ; si dichiarava sua ammiratrice. « Non ho fatto nulla, quasi nulla » si schermiva lo scrittore. « Lo sa » diceva lei, « che abbiamo scrittori che hanno scritto migliaia di pagine ma non ce n’è una che valga? »; lo sussurrava in confidenza indicando di sopra. Ma nelle ore d’ufficio lo scrittore era di nuovo preso dall’ansia; stava nel suo ammezzato – pensava – come un’anima raminga sulle rive dell’Acheronte. Aveva sempre l’orecchio rivolto ai rumori del piano di sopra: sentiva i passi concitati dell’editore, il trapestio della redazione e un galoppo generale sobillato dai mezzi d’informazione; fino all’acme, che si aveva verso le dodici, quando ronzavano le telescriventi, i telefoni suonavano, si udivano voci accavallate, come non ci fosse più tempo e alla casa editrice venisse la febbre. Sentiva perfino fare il suo nome e ripetere più volte: «È imminente » poi un correre, forse di fattorini. Tutto questo lo agitava moltissimo, soprattutto le voci al telefono; gli sembrava parlassero sempre di lui, gli sembrava che lo promettessero all’estero, alla televisione, come se ci fosse qualcosa, mentre da parte sua non c’era una riga, solo dell’angoscia e dell’ozio. Passatemi sotto silenzio, avrebbe voluto pregare; dite che sono morto, che rispettino il lutto. C’erano giorni che il soffitto sembrava più trasparente alle voci, come avessero aperto una botola. « Son cinque anni che aspetto » diceva l’editore a qualcuno che non parlava, « ti abbiamo dato la stanza, ti abbiamo dato il riscaldamento, il pranzo, l’acqua corrente, ti abbiamo dato dei fogli; hai fatto il romanzo? » L’editore gridava, spaventosamente.
Alcuni scrittori fanno a un certo punto il romanzo, altri sfruttano cinicamente le case editrici e abusano delle signorine. Il nostro scrittore restò sempre lì a divincolarsi come un’anima in pena, senza fare né male né bene.