Il Libro Bianco cinese di internet
La Cina ha redatto il primo rapporto ufficiale sulla situazione della rete nel paese
di Matteo Miavaldi
L’8 giugno scorso, per la prima volta nella sua storia, il governo cinese ha pubblicato il Libro Bianco di internet, un rapporto sulla situazione della rete in Cina.
Come ogni pubblicazione ufficiale cinese dedicata ad un pubblico internazionale, visto l’argomento scottante, i funzionari che hanno prodotto e tradotto il documento (che potete leggere in inglese sul China Daily) si sono prodigati in un esercizio retorico e celebrativo degno della propaganda locale: numeri esorbitanti, amorevoli dichiarazioni di intenti, difesa del diritto di informazione e di espressione online. Ma andiamo con ordine, saltando l’indtroduzione ed i cenni storici dello sviluppo di internet nella Repubblica Popolare.
I numeri
Stando alle cifre registrate a dicembre 2009, in Cina ci sono 384 milioni di utenti, 618 volte la cifra del 1997, con un incremento annuo di 31,95 milioni. Il 28,9% della popolazione è raggiunta dalle infrastrutture necessarie per il collegamento alla rete, che comprende secondo le stime 3,23 milioni di siti internet, 2.152 volte quelli presenti nel 1997. Il 72,2% degli utenti risiede nelle città, il restante 28,8% nelle campagne.
Libertà di espressione, blog, microblogging e social network
Secondo il Libro Bianco, il governo cinese garantisce pienamente il diritto dei cinesi alla libertà di espressione e alla libertà d’informazione, come sancito dalla costituzione, salvo numerosi casi di censura, controllo delle email private (in connivenza in questi casi con i servizi occidentali tipo Yahoo) fino alla reclusione per aver “messo a rischio la sicurezza nazionale”. I dati portati a sostegno dell’affermazione sono a mio modo di vedere strabilianti nella loro ipocrisia: l’80% degli utenti cinesi ritiene affidabili esclusivamente le notizie reperite online nei siti offerti dalla rete cinese che, cito testualmente, “…offrono un’informazione esaustiva…”. I portali citati come fiori all’occhiello dell’informazione online cinese sono i soliti noti: People’s Daily Online (versione online del Renmin Ribao, giornale ufficiale del PCC), Xinhuanet (website dell’agenzia di stampa Xinhua, governativa), CCTV.com (TV di stato cinese) e CNR.cn (il sito della radio nazionale cinese).
In effetti è indubbio che la maggioranza dei cinesi consulti esclusivamente siti internet in cinese, per ancora insormontate barriere linguistiche, e quindi la selezione delle informazioni è fatta a priori data la non competenza nella lingua inglese: dal computer sul quale sto scrivendo, senza bisogno di aggirare la censura, posso tranquillamente consultare il New York Times, il Washington Post, il Financial Times e l’Indipendent, ad esempio, salvo blocchi temporanei attivati dietro segnalazione del milione di controllori governativi che giornalmente, si dice, scandaglia la rete in cerca di ogni tipo di informazione non armonizzata.
Stesso discorso per i social network ed il microblogging: nel documento si specifica che la diffusione di social network, messaggistica istantanea, microblogging, blog e video sharing si sta rapidamente intensificando in Cina, facilitando la comunicazione tra gli utenti della rete cinese: ovviamente non si sta facendo riferimento ai servizi internazionali come Facebook, Twitter, Foursquare, Friendfeed, Youtube, WordPress, Blogger etc. (i citati sono tutti attualmente bloccati), ma il metro si basa sui surrogati cinesi di questi servizi, tutti prontamente offerti dalla rete nazionale. C’è Kaixinwang, il Facebook cinese, che in ufficio nelle pause pranzo, e anche in orario di lavoro, va per la maggiore, passando ore a giocare al corrispettivo cinese di Farmville. C’è QQ, un megaportale che offre di tutto, dal client per la messaggistica istantanea alla piattaforma per blog, e per i video ci sono Youku e Sina, dove si trovano anche gli streaming dei film di hollywood sottotitolati, gratis.
Il 60% degli utenti, si dice, posta regolarmente commenti su blog o siti di news cinesi: non si specifica però il controllo di quel milione di funzionari citati poco sopra e l’attività di moralizzazione costante che vede coinvolto il Fifty Cent Party, una schiera di commentatori a pagamento (5 mao a commento secondo le voci, ovvero 5 centesimi di euro) che promuovono il Verbo del partito.
Organi internazionali di amministrazione della rete
Un appunto curioso viene fatto verso la fine del trattato: la Cina si ritiene favorevole all’istituzione di un organo internazionale di amministrazione della rete che faccia capo all’ONU. A prima vista può sembrare una dichiarazione in controtendenza, una specie di “vogliamo che ci controlliate”. In realtà credo si voglia rivendicare un organo di primo piano nella gestione globale della rete, non necessariamente dei contentui, che seguono le leggi in vigore in ogni stato sovrano.
L’agenzia più influente in questo senso, dalle ricerche che un profano dei tecnicismi come il sottoscritto ha fatto, sembra essere la ICANN, già accusata in passato di pendere e dipendere un po’ troppo dalla parte degli USA. Ai piani alti della ICANN, nonostante i 384 milioni di utenti, verosimilmente ora sforati oltre i 400 milioni, non c’è nessun cinese; non lasciatevi trarre in inganno da Kuo Wei-Wu, simpatico signore con gli occhiali nella pagina dell’organigramma: laureatosi a Taipei, è un cinese di Taiwan, ancora oggi considerata dalla Repubblica Popolare una regione temporaneamente ribelle (nelle cartine è colorata come il resto della Cina, per intendersi…).
Nel caso, credo remoto, che l’ONU istituisca un organo simile, la Cina potrebbe far valere sul piatto della bilancia, oltre ai milioni di utenti, anche l’enorme influenza che esercita sugli equilibri mondiali: unica superpotenza ad avere rapporti solidi con l’Iran, per non parlare della Corea del Nord, che praticamente è il giardino di casa. In poco più di 30 anni, dopo l’entrata nelle Nazioni Unite e nel WTO, prendere parte attiva nella gestione di internet sembra essere per Pechino un nuovo traguardo da raggiungere.