È facile ricominciare a fumare
Il nuovo libro di Giacomo Papi, che ha letto il manuale di Allen Carr e ha capito che Carr si sbaglia
Giacomo Papi spiega così il suo libro, “È facile ricominciare a fumare (se sai come farlo)“, dopo aver raccontato la leggenda di Frankie Stoner, che sparì lasciando scritto nella neve «Vado a cercare un tabaccaio aperto. Scusatemi, Frankie»:
Questo libro esiste per tutti i Frankie Stoner della Terra, per tutti i milioni di uomini e donne che un giorno, convinti dai familiari, dai dottori o da Allen Carr, sono riusciti a smettere di fumare. Almeno per un po’. Questo libro è per le loro sofferenze, per i loro pensieri, per la loro solitudine, per le loro vittorie e per i loro sacrifici. Farà ridere, pensare e soffrire. È un piccolo, doveroso tributo e un risibile atto di ribellione contro il fallimento finale che tutti ci attende.
Questa è una parte del primo capitolo del libro, pubblicato da Einaudi.
I fumatori lo sanno, la loro esistenza ruota intorno a due droghe potentissime – il premio e l’incentivo – un mostro a due teste capace di schiacciarti il cervello tra la ricompensa per un’azione passata e lo sprone per quella futura. Cioè, di proiettarti costantemente da un’altra parte e in un altro tempo trascorso o in arrivo. Per chi fuma, tutto è meritevole di un premio e tutto esige un incentivo. E la sigaretta svolge, meravigliosamente, ambedue le funzioni con il risultato di sopprimere il presente.
Fu in questa disposizione d’animo che trovai il libro sotto l’albero e che Allen Carr entrò nella mia vita. Per quindici giorni il libercolo stazionò minaccioso sul mio comodino. Lo osservavo di sottecchi prima di spegnere la luce, qualche volta avevo perfino avuto l’ardire di prenderlo in mano e di leggere la quarta di copertina. Poi, lo riponevo, quasi bruciasse. Mi faceva paura. Ma Allen, immancabilmente, a ogni estemporanea apertura, mi dimostrava che lui lo sapeva che cosa stavo provando, che lui li capiva i miei sentimenti e, soprattutto, mi era così vicino da sentirsi autorizzato a darmi del tu.
Più pareva efficace, però, e più mi terrorizzava. Perché se davvero quel libro aveva il potere di farmi rinunciare al fumo, allora si trattava di un totem, di un amuleto ancestrale, di un manufatto del diavolo. Furono giorni di corteggiamento e paura. Ogni volta che lo guardavo o che osavo prenderlo in mano, avvertivo di non essere l’attore delle mie azioni, ma la vittima predestinata di una volontà superiore. Sentivo che era il libro a farsi guardare e a farsi toccare e a blandirmi a ogni apertura. Tentavo di ribellarmi, di replicare mentalmente, punto su punto, ma quello ribatteva e a ogni riga mi costringeva nell’angolo. Leggevo qualche frase. Chiudevo e formulavo una replica, una protesta, una insurrezione, poi lo riaprivo a caso per sentire che cosa Allen avesse da ribattere. Fu un dialogo intimo e sconnesso, che suonava, più o meno, così:
Allen (le sue frasi sono tratte dal libro): «Immagina che ci sia un metodo magico che permetta a tutti i fumatori, compreso te, di smettere di fumare: immediatamente; definitivamente; senza particolari crisi di astinenza; senza far ricorso a tecniche traumatiche, farmaci, terapie fisiologiche o artifici; senza ingrassare».
Io: «Ma va là, figurati, dite tutti così». Allen: «Se esistesse un tale metodo lo useresti?» Io: «Certo che lo userei, ma non mi convincerai mai». Allen: «Senza dubbio sei ancora molto scettico e non accetti le mie affermazioni iniziali. Non preoccuparti; ti reputerei un sempliciotto se fosse il contrario».
Io: «No, Allen, scusa, non è che sono scettico, è che proprio mi fa paura l’idea… Mi agita troppo…» Allen: «Forse, come la gran parte dei fumatori, il solo pensiero di smettere di fumare ti terrorizza…»
Io: «Sì, è proprio così… Maledetto il giorno in cui ho deciso di iniziare».
Allen: «È vero che abbiamo scelto di accendere quelle prime sigarette, così come occasionalmente io scelgo di andare al cinema, ma questo non vuol dire che io voglia trascorrere il resto dei miei giorni in una multisala».
Io: «Come devo fare, Allen? Aiutami, te ne prego».
Allen: «Come tutti gli altri fumatori sei stato attirato nella trappola più diabolica e raffinata che l’uomo, con l’aiuto della natura, sia riuscito a congegnare. La trappola della nicotina. E quel che tiene nella trappola è la paura!»
Allen sosteneva che per liberarsi dalla nicotina bastava liberarsi da quella paura. E viceversa. E la vita, senza paura e senza nicotina, sarebbe diventata un sollucchero. Alla fine, una notte, mi feci coraggio e riuscii a iniziare davvero. Le prime pagine furono un supplizio. L’angoscia si fece strada al centro del mio corpo, sul davanti; una voragine verminosa si aprì, un lieve palpito pulsante d’ansia e di vuoto spalancò le fauci nel punto molle in cui le costole terminano per lasciare spazio allo stomaco. Ma l’ostacolo più grande era un altro: quel libro era scritto malissimo e percorso, a ogni riga, da un’euforia da cui promanava un insopportabile puzzo di setta.
Leggevo nella notte, illuminato dalla fioca luce di un’abat-jour, intorno a me avvertivo il respiro libero e pulito dell’intera umanità addormentata e, intanto, nella penombra, intorno al letto, si materializzavano le ombre di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, dei testimoni di Geova che ti suonano alla porta la domenica mattina, dei figli di Satana, degli adoratori degli ufo, dei fanclub degli Abba… tutta quella variegata categoria umana che trova conforto nell’adesione incondizionata a un credo qualunque, a patto che sia il più schematico possibile, si affollava intorno alle frasi del libro, occhieggiava dai margini bianchi delle pagine sussurrandomi di chiuderlo, di ribellarmi e fuggire finché ero ancora in tempo.
E invece continuavo a leggere e piano piano, con sorpresa, la mia angoscia si trasformò in attenzione, l’attenzione in disponibilità, la possibilità in accordo, l’accordo in pacata fiducia, la fiducia in determinazione. Ero meravigliato. Avevo letto l’Ulysses di Joyce (fino a pagina 317), la Recherche di Proust (fino a pagina 267) e tutto, dicesi tutto, Le origini del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin. Come poteva succedermi di farmi convincere da un libro così modesto? Eppure stava accadendo.
Compresi nei mesi successivi che le leve su cui Allen Carr agiva erano estremamente semplici, una riuscita commistione di marketing e di poche intuizioni azzeccate. Come nelle sonate di Händel o nell’house music, tutto si reggeva sul basso continuo, una frase semplice ripetuta all’infinito a sorreggere. La struttura si riduceva a un unico messaggio declinato variamente, ma che non dava tregua (fumare fa male, fumare è stupido, fumare non serve, smettere è facile), e avanzava con una tattica emotiva elementare:
1. Io ero come voi, vi capisco;
2. Non siete deboli, sono le sigarette a essere forti;
3. Riuscire è facilissimo perché dipende da noi, non dalle sigarette che non contano niente (in evidente ma non rimarcata contraddizione con 2).
Poi, alla fine, come quei riff che ti entrano in testa e creano l’hit dell’estate, come quei subitanei levarsi di melodie d’archi che giustificano in un istante la gran palla del basso continuo, Allen piazzava due concetti vincenti:
4. I sintomi da astinenza da nicotina sono ridicoli. Durano non più di una settimana e anche nei primi giorni non sono peggiori di un po’ di appetito.
5. Non esiste una sigaretta singola. Le sigarette si susseguono come i secondi. Per questo premiarsi con un tiro dopo un’astinenza, per quanto lunga sia stata, equivale a ricominciare. Le sigarette sono anelli di una catena da spezzare e spezzarla dipende unicamente da noi.
Il giorno successivo, il mio primo senza fumo dopo venticinque anni di dipendenza, avrebbe confermato che sulle crisi d’astinenza Carr aveva ragione. Scegliere di non fumare, se si è davvero decisi, non dà dolore, al massimo un po’ di agitazione, poca roba, davvero. Mi bastò non premiarmi con un’unica sigaretta serale per l’impresa compiuta come avevo fatto tutte le altre volte che avevo tentato.
Abitudinario il sole salì nel cielo da est e disegnò un arco perfetto sulle teste di uomini, cose e animali per abbassarsi dolcemente a ovest fino a scomparire senza che io avessi aspirato una sola boccata. Quando arrivò il momento di andare a dormire, mi sentivo sorpreso e sgomento dalla facilità con cui avevo superato il primo ostacolo, il maggiore, il primo giorno, e ripensai con soddisfazione alla forza leggera con cui stavo andando a letto senza premiarmi poiché il vero premio – come diceva Allen Carr – era non premiarmi affatto, perché la rinuncia era la chiave della mia nuova vita felice, perché – diceva bene Allen – le sigarette si inanellano l’una sull’altra, l’una sull’altra per tutta la vita, come i battiti di un cuore, come il respiro, come la catena che mi aveva imprigionato, e tutto stava nel non offrire più anelli, nemmeno uno, e mentre pensavo e ripensavo e gli occhi mi si chiudevano dal sonno e il mio cervello copiava e incollava immagini, ricordi, frasi di Allen, incominciai a calcolare che una sigaretta, escluso il filtro e il mezzo centimetro che normalmente si schiaccia nel portacenere, è lunga quattro centrimetri e mezzo e che ne avevo fumate quaranta al giorno per venticinque anni, e quindi (4,5 × 40 = 180) un metro e ottanta al giorno che in un anno non bisestile fanno (1,8 × 365 = 657) 657 metri all’anno che per 25 anni (657 × 25 = 16 425) facevano 16 chilometri e 425 metri.
E così, immaginando questa strada lastricata di fumo, mi addormentai, felice, e sognai di essere seduto, le gambe penzoloni nel vuoto, sulle bianche scogliere di Dover, in Inghilterra. In bocca, tenevo una sigaretta accesa lunga come tutte quelle che avevo fumato in vita mia, un unico meraviglioso, leggerissimo, cilindretto bianco che si protendeva al di sopra del mare grigio della Manica, superava pescherecci e barche a vela, accarezzava albatros e gabbiani, nel tentativo inutile di raggiungere Calais, in Francia.
Sognai di fumare su tutti gli stretti del mondo, in Turchia sui Dardanelli, a Cuba con un Avana tra le labbra così lungo da posarsi sulle spiagge di Miami, in Florida, a San Francisco a prolungare nel Pacifico il Golden Gate, in Siberia, intabarrato come Jack London, a tentare di colmare lo stretto di Bering, tra Sicilia e Calabria, Marocco e Spagna, oltre il Nilo, oltre il Rio delle Amazzoni, sul bel Danubio blu e, infine, disteso su un’amaca comodissima in una spiaggia dei tropici in una notte caldissima con una sigaretta bianchissima e talmente lunga da fare il solletico alla luna.
Quando mi svegliai la mattina dopo, ancora stupito dall’essere riucito a superare indenne la prima curva, mi rivolsi l’unica domanda sensata: ma quanto erano lunghi davvero 16 chilometri e 425 metri? Da dove a dove avevo fumato in vita mia? E soprattutto, valeva davvero la pena di non provare a spingermi più in là?
Il giorno dopo in ufficio avrei verificato con Google Maps che 16 chilometri e 425 metri equivalgono, metro più metro meno, alla distanza che intercorre tra il meridiano di Greenwich (detto Zero) e la fermata della metropolitana di Notting Hill, esclusivo quartiere di Londra.