Bhopal, “una farsa che dura da 25 anni”
Dice Indra Sinha: nessuno deve essersi sorpreso troppo della leggerezza della sentenza.
Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 un incidente presso lo stabilimento chimico di Bhopal (India) della Union Carbide portò al rilascio di oltre 42 tonnellate di isocianato di metile, che in forma di nube tossica si propagò nell’area intorno alla fabbrica contaminando almeno mezzo milione di persone. La perdita di gas uccise circa 15mila persone. Ieri, a 25 anni dal disastro, i magistrati di Bhopal hanno condannato otto persone a due anni di carcere per quanto avvenuto nello stabilimento della Union Carbide.
Indra Sinha è uno scrittore inglese di origine indiana. Fortemente legato al caso di Bhopal, è autore di Animal che tratta del disastro, e ha lavorato, negli ultimi quindici anni, alla raccolta di fondi per l’assistenza medica alle vittime. Nell’ultimo periodo si è occupato del sito che raccoglie la documentazione accumulata nei venticinque anni trascorsi dall’incidente. Ieri, sul Guardian, spiegava perché l’esito del processo era ampiamente prevedibile, chi sono i veri colpevoli ed in che modo sono stati tenuti al di fuori delle vicende processuali.
Le persone maggiormente responsabili del disastro a Bhopal non erano in aula oggi, quando è stato emesso il verdetto contro otto impiegati indiani della Union Carbide India Limited. La Union Carbide Corporation (USA), il suo ex presidente Warren Anderson, e Union Carbide Eastern si rifiutano di rispondere alle citazione in giudizio della corte di Bhopal e di affrontare l’imputazione per omicidio colposo. Le prove portate contro di loro sono rimaste inascoltate. Al contrario, l’accusa si è concentrata sui pesci piccoli, i manager indiani, e la strategia di difesa secondo cui gli indiani obbedirono ad ordini provenienti dagli Stati Uniti non è stata tentata.
Stamattina le strade nel raggio di un miglio attorno al tribunale erano bloccate, era stato emesso il divieto di assembramento, poliziotti con manganelli presidiavano la zona. Persone che hanno aspettato per venticinque anni di avere giustizia si sono radunate nelle strade per attendere il verdetto pronunciato riguardo agli imputati indiani. Il fatto che tutti gli accusati siano stati dichiarati colpevoli ha prodotto un breve momento di gioia, ma i maggiori dettagli sulla sentenza diffusi poco dopo hanno lasciato la folla scioccata, incredula, disgustata, arrabbiata.
La compagnia è stata multata 11.000 dollari per aver causato le morti di più di 20.000 persone? Fa più o meno 55 centesimi a morte. E le sofferenze sopportate per un quarto di secolo da 100.000 sopravvissuti malati? Undici centesimi ciascuno. Da quando esistono i risarcimenti danni, non si era mai stabilito un prezzo così basso per la salute di una persona, non si era mai stabilito un prezzo così basso per una vita umana.
I sette accusati indiani (uno è morto durante il processo, durato 18 anni) sono stati multati con cifre ridicole e condannati a due anni, ma sono già liberi su cauzione. L’indignazione tra chi si aspettava giustizia è grande, ma Sinha sostiene che la leggerezza della sentenza non può aver realmente sorpreso nessuno. Dice anzi che era tutto facilmente prevedibile fin dall’inizio, e fornisce la sua interpretazione dei fatti.
Ho passato lo scorso mese a sistemare il sito www.bhopal.net, riorganizzando venticinque anni di frammenti di articoli, documenti, fotografie e post di diversi coordinatori del sito. Non ho spazio in questo articolo per fare una lista delle decisioni sventate, del folle taglio dei costi e dei risparmi sulla sicurezza e manutenzione ordinate dagli Stati Uniti che possono essere ricondotte all’incidente, ma i dettagli e le fonti di documentazione sono online. Quello che si riesce a ricostruire è che all’origine della vicenda c’è stato una specie di fatto.
L’amministrazione americana ed i suoi alleati in India erano disperati per il fatto che i manager americani non dovessero affrontare il processo. Era possibile, però, persuadere gli imputati indiani a prendersi la colpa? La prima cosa da fare doveva essere attenuare le accuse contro di loro, in modo che non rischiassero i dieci anni legati all’originale accusa di “omicidio colposo”. Justice Ahmadi della Corte Suprema servizievolmemente ridusse le accuse a “atto imprudente e negligente”, il cui livello di colpevolezza è pari a quello di un autista disattento in un incidente stradale.
Nel Novermbre 1996, poi, il CBI, l’equivalente indiano dell’FBI, riferì alla corte di Bhopal che alla luce della decisione di ridurre le accuse agli imputati indiani, stava considerando di nuovo la questione dell’estradizione di Anderson. Il CBI è controllato da un dipartimento poco trasparente guidato dal primo ministro indiano. Dopo aver pensato per sei anni all’ estradizione di Anderson, cambiò rotta inoltrando una richiesta alla corte di Bhopal per attenuare i capi d’imputazione contro Anderson, la UCC, e Union Carbide Eastern. L’obiettivo era portarle in linea con le accuse attenuate con cui si dovevano misurare gli imputati indiani. Con questa manovra, non ci sarebbe stato nessun dibattito a proposito dell’estradizione di nessuno, perché “un atto imprudente e negligente” non è un crimine per cui si può chiedere l’estradizione.
Infatti è andata così. La domanda di estradizione di Warren Anderson è stata trasmessa dal governo indiano a quello americano nel 2003. Il 13 luglio 2004, il governo USA ha respinto la richiesta. Come dice Sinha:
Si sapeva fin dall’inizio che non ci sarebbe stata giustizia. Il lungo processo è stato una farsa, ed il suo esito è stato deciso negli Stati Uniti venticinque anni fa.