Nordcoreani, scappate!
La Corea del Nord torna ai mondiali dopo oltre quarant'anni, nel 1966 eliminò l'Italia
Una delle ragioni di maggiore curiosità con cui si guarda agli imminenti mondiali di calcio in Sudafrica è la presenza della nazionale della Corea del Nord. Cosa vuol dire – per la Corea del Nord, per i suoi abitanti e per tutti gli altri – la partecipazione di una delle nazioni più chiuse e isolate del pianeta a uno degli eventi più “globali” che ci siano? Il New York Times ha provato a raccontarlo.
La Corea del Nord è probabilmente la squadra più debole fra le trentadue che parteciperanno alla fase finale dei mondiali. Come se non bastasse, è inserita in un girone terribile: si giocherà il passaggio del turno con il Brasile, il Portogallo e la Costa d’Avorio. Nonostante questo, le speranze non le mancano: la sua ultima – e unica, finora – apparizione ai mondiali risale al 1966, quando inflisse alla nazionale italiana la più memorabile delle sconfitte.
Quello che in Corea del Nord arriverà, dei mondiali in Sudafrica, dipenderà molto dalle prestazioni della squadra. Il governo ha stabilito che nessuna partita sarà trasmessa in diretta, nel timore che la squadra subisca una goleada o qualche tifoso esponga cartelli e striscioni contro il regime. Le partite perse dalla Corea del Nord non saranno semplicemente menzionate: mai giocate. Se invece la squadra dovesse riuscire per qualche strano accidente a battere il Brasile, per dire, allora una sintesi della gara verrebbe mandata in onda due o tre giorni dopo.
“Non ricordo di aver mai letto della Corea del Nord perdere una partita”, dice il professor Myers, esperto e studioso della propaganda nordcoreana. “Ogni tanto mandano in onda qualche estratto di qualche partita in giro per il mondo, spesso per mostrare le sconfitte di una nazione nemica, come gli Stati Uniti o il Giappone”.
Durante la guerra fredda, i paesi del blocco sovietico approfittavano degli eventi sportivi come i mondiali o le olimpiadi per tentare di dimostrare agli stranieri la superiorità degli atleti e della civiltà comunista. In Corea del Nord, invece, lo sport è uno strumento di propaganda interna: serve ad accendere il nazionalismo ed enfatizzare il culto del leader. La stella della nazionale è l’attaccante Jong Tae-se, nato in Giappone e naturalizzato nordcoreano. Viene soprannominato “il Rooney del popolo” e ha detto che sarebbe “onorato di fare felice Kim Jong-il”. Tae-se gioca nella serie A giapponese: ai giornalisti di Tokyo ha raccontato che quando torna in patria i suoi compagni di nazionale rimangono allibiti ogni volta che tira fuori il suo cellulare, e se lo passano di mano in mano con la bocca aperta.
Essere una delle nazioni più isolate del mondo comporta alcuni fastidi, se partecipi ai mondiali. Primo: i tifosi. I nordcoreani che possono permettersi una trasferta in Sudafrica sono pochissimi, meno ancora quelli che possono avere dal governo un permesso per l’espatrio. Per questa ragione il governo ha “affittato” mille tifosi cinesi, che saranno pagati per fare il tifo per la nazionale della Corea del Nord. Secondo: le magliette. La Corea del Nord non ha ancora comunicato quale sarà il suo sponsor tecnico ai mondiali: chi gli farà le magliette, insomma. Durante le qualificazioni ha indossato svariate magliette, spesso recuperate all’ultimo momento o prestate da altre squadre. Nella loro ultima apparizione vestivano un completo della spagnola Astore, che però ha detto di non avere alcun accordo per la fornitura delle maglie alla Corea del Nord. I collezionisti sono piuttosto irritati, ma ora sembra che la ditta italiana Legea sia vicina a un accordo con la federazione nordcoreana (update: trovato l’accordo, Legea farà le maglie della Corea del Nord per i prossimi quattro anni).
Ieri è venuto fuori che l’allenatore della Corea del Nord ha tentato di imbrogliare la FIFA, inserendo nella lista dei convocati un giocatore di movimento in più, spacciandolo per il terzo portiere. La FIFA se n’è accorta e la lista non può essere più modificata: Kim Myong-Won sarebbe una punta, ma ai mondiali potrà giocare solo in porta.
In generale, i calciatori non se la passano affatto bene. Fatta eccezione per i due o tre che giocano all’estero, la nazionale nordcoreana si allena ininterrottamente da sei mesi in un ritiro dalla ferrea disciplina militare. L’allenatore della Costa d’Avorio, Sven Goran Eriksson, ha detto di aspettarsi una squadra “organizzata, che correrà tutto il tempo”. Dovessero giocare bene e magari vincere una partita, al loro ritorno in patria li aspetterebbe una casa migliore e forse uno stipendio leggermente più alto. Dovesse andar male, invece, potrebbe andare molto male. Nel 1966, dopo avere eliminato l’Italia, la Corea del Nord sprecò un vantaggio di tre reti contro il Portogallo, perdendo 5-3. Al loro ritorno in patria, i giocatori sono stati spediti nei famigerati campi di rieducazione, a compiere lavori forzati. Alcuni sarebbero stati uccisi, per anni si è detto che alcuni sarebbero addirittura scappati prima di tornare a casa, restando nascosti in Inghilterra.
E qui veniamo al punto finale, che è anche un po’ un auspicio. Da sempre gli eventi come le olimpiadi e i mondiali di calcio rappresentano un’occasione di libertà per gli atleti provenienti da dittature repressive e violente. Non si contano, infatti, i casi di atleti provenienti da nazioni come la Corea del Nord che una volta atterrati all’estero spariscono, scappano, chiedono asilo politico, tentano di costruirsi una vita dignitosa lontano dalle prigioni di casa propria. Negli anni della guerra fredda le olimpiadi vedevano spesso la fuga di atleti ungheresi, polacchi, cecoslovacchi, russi. Recentemente non sono stati pochi i casi di atleti cubani scappati dalla dittatura durante manifestazioni sportive. Chissà che qualche calciatore nordcoreano non possa farsi coraggio e decidere di cominciare una nuova vita, in Sudafrica.