La guerra dei video
Tra Freedom Flotilla e Israele, il nuovo fronte dello scontro è online
C’è stato lo scontro sulla Mavi Marmara, tra i soldati israeliani e gli attivisti sul ponte. Finito lo scontro col tragico bilancio che conosciamo, è iniziata un’altra partita: quella dei video. “Quando l’esercito ha attaccato la Freedom Flotilla”, scrive il New York Times, “entrambe le parti erano armate fino ai denti. Di videocamere”. Si discute quindi del valore dei video diffusi subito dopo l’attacco e della potenza evocativa dei video in sé: di quanto possono aiutarci a capire come siano realmente andate le cose e quanto verranno utilizzati come strumenti di propaganda dall’una e dall’altra parte.
I video caricati sul proprio canale di Youtube dall’esercito israeliano – una ventina, più o meno – sono stati visti seicento mila volte. Anche gli attivisti hanno diffuso del materiale video, sebbene molto più confuso: e tra l’altro gli organizzatori stavano trasmettendo da giorni in diretta la situazione a bordo grazie a Livestream. In uno di questi video si vede un soldato arrivare dall’alto che viene preso a bastonate appena tocca terra, e alcuni soldati israeliani caricare dei fucili (l’esercito ha detto che si trattava di proiettili di vernice).
Allo stesso modo, uno dei video diffusi ieri dall’esercito israeliano sembra in realtà girato dagli stessi attivisti, considerata la sua prospettiva. Ci sono due tipi di video che mancano del tutto all’appello però, fino a questo momento. Non abbiamo il video che mostra i soldati israeliani sparare i proiettili – quelli veri – e uccidere nove persone. E non abbiamo video che aiutino univocamente a comprendere la dinamica dei fatti: un video completo, dall’inizio alla fine, che ci dica chi ha usato la violenza per primo.
Nel giro di poche ore, l’esercito israeliano ha cominciato a pubblicare i propri video, mostrando le azioni dalla prospettiva dei soldati. In uno video che sembrerebbe girato prima dell’assalto, un soldato dà istruzioni alla flotilla intimandole di raggiungere un porto vicino, così da concludere la vicenda pacificamente. In un video successivo i soldati sembrano essere attaccati dagli attivisti con spranghe e sedie, e il video enfatizza questi elementi con dei cerchi gialli aggiunti dagli israeliani. Un altro video dice di mostrare le armi trovate a bordo, tra cui fionde e coltelli.
I video cercano di dimostrare che quando hanno sparato agli attivisti, i soldati hanno agito per legittima difesa: in un altro video si vedono gli attivisti gettare fisicamente un soldato giù dalla nave. Ma a che punto eravamo, quando quel video è stato girato? Molti attivisti sostengono infatti che gli israeliani hanno gettato sul ponte gas lacrimogeno e granate antisommossa prima di arrivare a bordo.
Un altro video che si è visto molto in giro vede un giornalista di Al Jazeera riferire che a un certo punto gli attivisti avevano deciso di “alzare bandiera bianca” e “nonostante questo i soldati hanno continuato a sparare”.
Ancora una volta manca però il contesto. Il video di Al Jazeera è stato citato da molti blogger come prova del fatto che Israele ha attaccato senza essere provocata, ma questa asserzione non è stata ricavata dai video.
L’utilizzo dei video e di internet come strumento centrale per la comprensione degli eventi, e quindi anche per la diffusione di versioni deliberatamente o involontariamente imprecise, pone un problema anche agli stessi fornitori di servizi online.
L’episodio è stato una sfida anche per terze parti come la stessa Livestream, che ha garantito la banda per lo streaming delle immagini dalle navi. Max Haot, co-fondatore di Livestream, ha detto che all’inizio non era convinto di trasmettere live dalla nave, ma di essere arrivato poi alla conclusione che quella della Freedom Flotilla era una “controversa ma sincera missione umanitaria”. Oggi pensa però che la sua start-up avrà bisogno di policy e regolamenti ben precisi, se in futuro vorrà gestire ancora immagini violente e scene da conflitti. “Dopo tutto quello che è successo”, ha detto, “ho passato tutta la giornata a chiedermi se avevamo aiutato dei terroristi o una causa umanitaria”.