Ilvo Diamanti contro il pensionamento dei baroni
Chi è entrato di ruolo molto tardi rischia di non avere una pensione adeguata, dice Diamanti
Si ritorna a parlare della proposta del PD di pre-pensionare i professori universitari (pre-pensionare per modo di dire: si chiede di farli andare a pensione a 65 anni). Ieri ne ha scritto Ilvo Diamanti su Repubblica, che si è detto concorde con le critiche mosse al progetto da Mario Pirani (a cui Maria Chiara Carrozza, co-autrice della proposta, rispose sul Post). Diamanti aggiunge un argomento che lui stesso giudica “molto personale”.
Autobiograficamente: io, che non ho avuto baroni a trainarmi, ma molti colleghi e maestri, con i quali ho collaborato, studiato, scritto e pubblicato, ebbene, sono diventato di “ruolo”, ho, cioè, vinto il concorso di ricercatore, quando avevo 40 anni. Prima – e per 14 anni – ho fatto il precario. A mia volta: assegnista, borsista, “ esercitatore”. E poi dottorando e dottorato. Per mantenermi (ma anche per passione), ho diretto un ufficio studi sindacale, poi ho fatto il ricercatore di professione. Così come, durante gli studi universitari, per sostenere i costi e aiutare la famiglia, ho fatto molti altri “lavori”. Fra l’altro: il benzinaio, l’assicuratore, il venditore di enciclopedie, l’operaio. Un’esperienza veramente formativa.
Non c’è dubbio che per Diamanti possa essere stata una proficua esperienza barcamenarsi facendo il benzinaio, il venditore di enciclopedie e l’operaio a un’età a cui in qualsiasi altro paese al mondo avrebbe avuto meritatamente una cattedra: paesi in cui le ottime analisi e gli insegnamenti che Diamanti ha dato agli italiani negli ultimi decenni sarebbero giunti molto prima. Ed è una fortuna che il suo progetto di vita – sposarsi, andare in vacanza, avere dei figli – non abbia risentito di questa condizione di prolungata precarietà. Da qui a definirla un bene da tutelare, “un’esperienza veramente formativa” da promuovere e valida per tutti, forse ne passa: di certo per molti altri quarantenni sarebbe più formativo poter cominciare a fare costruttivamente il loro lavoro prima, piuttosto che fare il pieno. Che se vogliono, non è loro impedito. L’elogio della “faticosa gavetta” in questo paese ha prodotto l’idea del posto di lavoro come “favore” che viene elargito e premio di sacrifici, legittimando ogni genere di aberrazione sui luoghi di lavoro ai danni dei più giovani.
Diamanti personalizza ulteriormente la sua analisi di un provvedimento pensato per migliorare e rinnovare il sistema educativo e formativo nazionale.
Se davvero mi chiedessero di andare in pensione a 65 anni, temo che, alla scadenza, non raggiungerei i requisiti minimi di anzianità richiesti. A meno di non “riscattare” (si dice così?) gli anni della laurea, del dottorato, ecc… A un costo, mi si dice, tale da azzerare i primi anni di pensione. Per fortuna, ho ancora un po’ di tempo – un po’ di anni di università – davanti, per organizzarmi.
Bizzarra argomentazione, anche questa: che invece imputa il mancato raggiungimento dell’anzianità necessaria a una pensione soddisfacente a un pensionamento troppo precoce piuttosto che a un avvio troppo ritardato della professione. Avvio ritardato dalla deriva che Diamanti difende: gli sarebbe bastato infatti poter entrare di ruolo prima, per raggiungere i “requisiti minimi richiesti”: non avrebbe potuto fare il benzinaio, ma non si può fare il benzinaio e pretendere pensioni da professore universitario. Diamanti riceverebbe semplicemente la pensione congrua ai contributi che ha versato.
Diamanti mette in dubbio anche il fatto che con i soldi risparmiati dall’università per ogni professore pensionato si possano assumere tre giovani ricercatori, come sostiene Carrozza. La prima motivazione è particolarmente lapidaria e pigra: secondo Diamanti non ci sono giovani, all’università. E il suo argomento conferma la degenerazione anagrafica del sistema accademico italiano.
Tuttavia, dubito seriamente che, al mio posto e con il mio stipendio, entrerebbero tre nuovi, giovani ricercatori, come si ipotizza. Intanto perché di giovani, all’università, non ne vedo più. I collaboratori, intorno a me, ormai hanno i capelli bianchi, hanno messo su famiglia, sprezzanti del rischio: hanno persino fatto figli. Magari potessero subentrare a me, loro, precari ad alta qualificazione e con “tanti tituli”. Se così fosse davvero, me ne andrei prima. Anche subito. Magari all’estero, dove in un paio di università, almeno, e in un paio di paesi, almeno, un vecchio barone come me troverebbe ancora posto.
La seconda ragione è il timore che le università e il ministero alla fine preferiscano non assumere nessuno, per rimpiazzare i baroni. E quindi meglio tenersi i baroni.
Ma continuo a dubitare che al posto dei Baroni 50-60enni, subentrerebbero davvero tanti giovani ricercatori. Credo e, anzi, temo che – invece – il “taglio” avverrebbe con pochi rammendi. Senza turnover. Chi è fuori ci resterà, raggiunto dai neopensionati. Tutti in cammino verso una società senza (o meglio: con sempre meno) “statali”. E senza Baroni. Verso una società popolata da lavoratori autonomi. Artigiani, commercianti, liberi professionisti. Imprenditori. Grandi, medi, piccoli e piccolissimi. E da lavoratori dipendenti. Ma Privati. D’altronde, come rammentava Eugenio Scalfari domenica scorsa, “gli statali votano in larga maggioranza a sinistra”. E, aggiungo, i Baroni ancor di più. “Il loro scontento non peserà, se non marginalmente, sul consenso raccolto dal governo”. Perché mai, dunque, dovrebbe preoccuparsene il governo insieme alla Lega e al centrodestra?
Poi la stoccata, alla fine dell’articolo, del genere benaltrista a cui Diamanti non aveva fino a oggi abituato i suoi lettori: ma il PD non potrebbe occuparsi d’altro?
Mi sfuggono, semmai, i motivi, le ragioni per cui ci stiano pensando l’opposizione e il PD. Forse perché è più facile – e popolare – combattere i baroni che il Cavaliere.