Luci al Santiago Bernabeu
Dove l'inviato del Post a Madrid incontra Roberto Vecchioni, vince e torna a casa
di Davide Cunsolo
La cronaca, cruda e spiccia, è la seguente: Inter 2 Bayern 0, Internazionale football club campione d’europa dopo 45 anni, buona parte d’Italia che si rode il fegato (e lo dice uno che ne ha cambiati due di fegati, a furia di roderseli), mezza Milano (più Galliani, a quanto pare), in festa.
Arriviamo fuori dallo stadio alle cinque e mezza, e da lì a pochi minuti dovrebbero aprire i cancelli. Cerchiamo ombra e refrigerio, troviamo un bar in cui la spinatrice non smette di lavorare, e impariamo una nuova parola in spagnolo: la Mini, ossia un bicchiere (rigorosamente di plastica), da un litro, ovviamente di fresca birra. La polizia a cavallo tiene bloccati i tifosi, in attesa che i cancelli aprano: per gente che fatto quasi 24 ore di coda fuori da una banca in via massaua, non è certo una mezz’ora al sole fuori dal santiago bernabeu a fare la differenza; anzi, ne parliamo tra di noi,ed è più il timore, l’ansia che aumenta col passare dei minuti, che ci fa accalcare in coda senza troppe lamentele. Dentro, di lì a poco, si deciderà un’annata, perchè il calcio è uno dei troppi sport in cui arrivare secondi, o arrivare decimi, cambia poco.
I controlli della polizia sono su tre diversi strati: aprono le borse, tastano zaini e tasche. Non importa chi tu sia, non leggono il nome sul biglietto, non chiedono alcun documento d’identità, l’importante è solo non portare armi e bottiglie all’interno dello stadio. Anche perchè, le bottiglie d’acqua, le vendono dentro, a prezzi a dir poco vergognosi.
Ma siamo dentro, settore 315, la pora, la bandierina del calcio d’angolo, è vicinissima, e di fronte a noi, nel secondo tempo, Milito prenderà in giro Van Buyten, che probabilmente a quest’ora non avrà ancora chiuso occhio. Come ogni buona partita in curva, il posto assegnato non viene rispettato: ognuno si siede dove trova posto, si occuano posti per le persone in arrivo, i pochi sprovveduti che girano con lo sguardo basso verso i seggiolini per trovare il proprio sedile vengono energicamente invitati a cercare un posto libero, senza badare troppo ai numeri.
Lo stadio, il Santiago Bernabeu, è stupendo, e alle sei e mezza i settori dietro le due porte sono già colorati e addobbati a dovere. Si inganna l’attesa con foto celebrative (in maniera tale da poter provare, tra qualche anno, che “Io c’ero”), e con birre analcoliche dal prezzo esorbitante.
Incrocio fuori dal bagno Roberto Vecchioni, cruciverba in mano, che parla al telefono, forse non trova il suo posto, forse è già agitato, nonostante manchino ancora due ore. Il monitor dello stadio manda immagini del cammino delle due squadre, e un presentatore da bordo campo, fa parlare alternativamente due rapresentanti delle due tifoserie: quando il tedesco parla, dalla curva opposta partono fischi e offese, e lo stesso avviene a parti opposte non appena Roberto Scarpini apre bocca.
Ad un certo punto portano la coppa, a favore dei fotografi, sotto il nostro settore, e mi ritrovo a fissarla, vergognandomi un po’ delle volte in cui ho sostenuto, senza pudore, di fronte alle vittorie di serie B della mia squadra, che la coppa uefa, esteticamente, avesse tutt’altro fascino.
La portano via dopo un migliaio di flash, ed è bene così, non la voglio più vedere, se non tra qualche ora. Durante il riscaldamento, i giocatori sono a due passi da noi. Non riesco a vedere bene i loro volti, ma se la tensione degli undici in campo sarà simile a quella che si respira, minuto dopo minuto, tra il pubblico, dubito che riusciranno anche solo a fare un passaggio buono.
Quando mancano poche decine di minuti, faccio l’ultimo giro al bar, e sento un poliziotto spagnolo che invita, energicamente, una serie di spettatori in piedi davanti alle scale ad abbandonare quel posto all’inizio della partita perchè, in caso contrario, non si farà problemi a buttare la gente per strada. E pochi secondi dopo, parlando con un collega lo invita alla “toleranca ZERO”. Penso al mio bel posto, occupato alle sei di pomeriggio di questo giorno infinito, e un po’ spero che Vecchioni abbia trovato il suo, chè dubito che la guardia civil possa avere un trattamento di riguardo nei suoi confronti.
Parte la cerimonia inaugurale, due squadre di ballerine impegnate a tempo di flamenco e di ventagli ballano, contrapposte le une alle altre: si inseguono, si fronteggiano, si alternano nei movimenti, Fisso l’ora, mancano pochissimi minuti, e non me ne voglia nessuno, ma non vedo l’ora che finisca questa pagliacciata, e di vederli in campo.
Ci siamo, dal settore più alto della nostra curva parte la coreografia, un telone che scendere a coprire, per qualche minuto, buona parte dei tifosi: la coreografia, vuoi per sfiga, vuoi per calcoli sbagliati, vuoi perchè è teso quanto noi, si attorciglia proprio sotto le nostre teste, e rimane bloccato per pochi ma interminabili secondi. Una serie di ragazzi iniziano a formare una sorta di piramide umana, per inerpicarsi sulle corde e sbrogliarlo, ma in qualche modo, sciolta la tensione, il telone scende giù, veniamo ricoperti, ed è buio. Quelli sono gli ultimissimi secondi prima dell’inizio: quando il telone scenderà, i giocatori saranno già posizionati, il pallone sarà già in mezzo, e sarà soltanto una partita di calcio: sono quei secondi prima, quelli in cui non vedi niente, non vedi i saluti, le scaramanzie dei giocatori, e gli arbitri che controllano le reti, quei momenti in cui ti passa indietro tutto l’anno calcistico e provi, per l’ultimissima volta, a dirti che in fondo è solo una partita di calcio, che anche se perdiamo sarà stata una grande impresa, che ricorderemo per anni. Puttanate. Chi non vince, non è nessuno. Se l’inter perde, sarai solo uno dei tanti imbecilli che si è fatto 20 ore di coda fuori da una banca ed un viaggio da 1500 chilometri; se vince, avrai ancora qualche anno per arricchire quest’avventura di particolari tanto eroici quanto inventati da raccontare a tuo figlio, quando lo porterai a San Siro.
La partita, praticamente, non esiste: la nostra curva canta poco, perchè siamo disorgnizzati, dispersi chi dietro la porta, chi in quarta categoria, e perchè siamo tesi da morire. La curva tedesca, invece, è qualcosa di incredibile: canta all’unisono, con una precisione degna dei loro cugini svizzeri, e se a decidere chi vincerà la finale non saranno più le ore spese fuori da una banca, quanto i decibel prodotti in novanta minuti, allora temo che verremo annientati. I primi 35 minuti volano come se ne fossero passati appena 2, siamo contratti, tesi, non riusciamo ad esprimerci come vorremmo. e non sto parlando solo degli undici giocatori in campo, ma anche di tutte le persone dietro di loro. Dopo il gol di Diego, invece, i cinque minuti finali non passano più. Esausti, ci sediamo, e ci prendiamo questi 15 minuti di ossigeno, un occhio al monitor che manda gli highlights del primo tempo, un altro alla facce attorno a te. Dall’altra parte, quei maledetti tedeschi, in versione oktober fest, continuano a cantare come se stessero vincendo tre a zero..
Il secondo tempo, se possibile, è ancora più infernale del primo, i tedeschi attaccano, julio cesar fa i miracoli, ed io (ne approfitto per scusarmi pubblicamente con lui e coi genitori), faccio un corso accelerato di bestemmie al bambino di dieci anni in piedi davanti a me col padre. Poi, a salvare le nostre coronarie, ad un minuto indefinito del secondo tempo (ma che a me sembra una vita), diego milito prende palla poco dopo centrocampo, punta gli avversari, si trova davanti tale Van Buyten, guarda verso il settore 315, vede un padre che tappa le orecchie al proprio figlio, e dietro di lui un esagitato che ha smesso di respirare da 10 secondi: deride De Michelis, e decide di non farci più soffrire. La partita, non la vedo neanche più: sono solo cori per il principe, e occhiatacce, alternativamente, a Robben, l’unico del Bayern che non se ne fa una ragione, e soprattutto all’orologio e agli ultimi interminabili minuti.
Siamo campioni d’europa dopo un’eternità, e la tensione non si è ancora sciolta del tutto, tanto che sono ancora i tedeschi che cantano come matti. I fuochi d’artificio, però, sono per noi. Così come sono per noi le corse con la coppa in mano, la passeggiata di Josè Mourinho bandiera del Portogallo in mano. Come dice una persona di fianco a me, così si può voler di più dalla vita dopo aver visto Zanetti e soci premiati con la Champions league da uno juventino (monsieur Platini)? Niente, rispondo io.
Dopo un’ora di festeggiamenti, siamo in metrò, italiani e tedeschi. Facciamo partire un “chi non salta milanista è” che fa traballare i vagoni, gli avversari, composti e signorili dopo la sconfitta, non fanno una piega, e durante la notte passata a festeggiare, ne incontreremo tanti che si complimenteranno per la vittoria.
Il resto, i bicchieri di sangria alzati per festeggiare, gli abbracci con gente sconosciuta, resa identificabile solo per il colore di una maglietta, i bagni nella fontana di Cibeles, le pacche sulle spalle da parte di tanti madridisti (che son felici, in realtà, solo perchè ci hanno preso l’allenatore), lo scambio di bandiere con un tifoso dell’atletico madrid (bisogna sempre pensare avanti, il 27 agosto ci sarà inter-atletico madrid, supercoppa europea) fanno solo da corollario ad una serata storica, il 22 maggio, che d’ora in avanti, come il 5 maggio, più del 5 maggio, sarà ricordata da parecchi.
E poco importa che ora, mentre scrivo, siamo in auto, poco dopo Barcellona, e con pochissime ore di sonno alle spalle, e con molte ore di autoda far passare. Da campioni d’Italia e d’Europa, anche le code in autostrada, anche i titoli dei giornali spagnoli che parlano solo di Mourinho, si sopportano senza problemi.