Somalia, abbiamo smesso di preoccuparcene?
Oggi almeno 14 morti nell'attacco dei ribelli islamici al palazzo presidenziale
Dopo l’attacco al parlamento somalo di domenica scorsa, a Mogadiscio continuano gli scontri tra i ribelli islamici di al-Shabab e le truppe somale. Reuters riporta che nell’attacco di oggi al palazzo del presidente Sheikh Sharif Ahmed sono morte almeno 14 persone, che si aggiungono alle altre vittime — almeno 6 — di ieri. Il governo di transizione del presidente Ahmed, supportato dall’Unione Africana, sta combattendo da tre anni senza successo una guerra contro i militanti islamici che ha portato almeno 21.000 morti e che ha obbligato più di un milione e mezzo di persone ad evacuare le proprie cittadine. Gli scontri, dopo una pausa di qualche mese, hanno ripreso con la stessa forza con cui si erano interrotti, tornando ad agitare uno stato che non ha un vero e proprio governo da ormai più di vent’anni.
L’occidente ha provato più volte a intervenire nel conflitto, con esiti disastrosi. La prima volta nel ’92, in cui nell’operazione “Restore Hope” le truppe americane e quelle dell’ONU, compresa l’Italia, fallirono in una guerra durata tre anni che portò migliaia di vittime civili. Tre anni fa, nel gennaio 2007, gli Stati Uniti presero di nuovo temporaneamente parte al conflitto insieme al governo etiope, supportando la Somalia in una guerriglia fortemente criticata dall’ONU e dall’Unione Europea. Dopo essersi ritirati ancora una volta senza essersi riusciti a portare la pace voluta, il New York Times scrive che negli ultimi mesi gli Stati Uniti stanno pensando di intervenire di nuovo nel conflitto, anche a causa dell’espansione sempre maggiore di al-Qaeda nel corno d’Africa. L’operazione è rischiosa perché, come successe già due volte, potrebbe portare i cittadini somali a vedere gli Stati Uniti come un nemico esterno, aiutando i ribelli a raggiungere il consenso della popolazione. Ma gli Stati Uniti sembrano aver imparato dai propri errori: l’intervento non sarebbe militarmente massiccio come il precedente, ma punterebbe su attacchi mirati alle cellule islamiche, nel tentativo di colpire il cuore del movimento ed evitare perdite civili.
Il governo italiano sta invece prendendo — o, meglio, ha già preso da tempo — la strada opposta: disinteressarsi del caos somalo che, per quanto abbia radici complesse, abbiamo aiutato a creare più di un secolo fa rendendola nostra colonia. Questo weekend, ospitato dal primo ministro della Turchia Recep Tayyp Erdogan, si è tenuto un meeting internazionale a Istanbul, in cui il segretario dell’ONU Ban Ki Moon e i ministri degli esteri di diversi paesi hanno discusso proprio sul tema Somalia. Assente, l’Italia. Ecco il commento di Vincenzo Nigro, giornalista di Repubblica esperto di politica estera, sul suo blog Webdiplomazia:
Questo della conferenza sulla Somalia però è un piccolo, ma vero campanello d’allarme. Tra l’altro non solo perché alla fine attorno a Ban Ki Moon ed Erdogan si sono convinti a sedere ministri degli Esteri europei come il francese Kouchner e lo spagnolo Moratinos (presidente di turno Ue). Ma perché il livello di presenza italiano (il sottosegretario Stefania Craxi) conferma uno dei limiti dell’azione di politica estera del governo di Roma: la Craxi ha la delega a seguire il Medio Oriente, l’Italia non ha più un sottosegretario per l’Africa come pure era stato nei precedenti governi Berlusconi. L’Africa sarebbe assegnata in prima persona al ministro Frattini, che chiaramente però non riesce a seguire il continente a tempo pieno. Risultato: l’Africa (assieme ad altri dossier strategici) viene seguita sempre meno dal sistema politico italiano. La Turchia e molti altri ringraziano.