Per coerenza
Cosa fare col cavallo di Cattelan, dopo le riflessioni sulla vignetta sudafricana?
Siccome le domande ce le facciamo, ci siamo chiesti se – ammesso che ne scrivessimo – pubblicheremmo la foto del cavallo trafitto dal cartello su cui è scritto INRI: l’opera di Maurizio Cattelan che dovrebbe essere esposta a settembre a Palazzo Reale a Milano e che ora è “al centro di polemiche“, perché così vicina al Duomo qualcuno potrebbe offendersi, dice il sindaco (poi c’è un’altra questione su una seconda opera).
E ci siamo risposti che forse l’avremmo pubblicata, e abbiamo realizzato – quelli di noi su quella linea, che altri in redazione la pensano diversamente – la contraddizione con la questione della vignetta su Maometto. E la contraddizione c’è, senza dubbio: ma posto che una risposta definitiva – come abbiamo segnalato ieri chiedendo pareri – non c’è, una differenza tra i due casi esiste e spiega i diversi pesi e misure.
È che la nostra familiarità e vicinanza con alcune culture ci suggerisce maggiore complicità nelle scelte e maggiore intransigenza sulle cose che riteniamo sbagliate: ci sentiamo di pretendere da una civiltà che conosciamo e di cui condividiamo i principi che accetti cavalli, vignette, e ogni espressione anche più provocatoria della libertà che diamo per scontata. E mentre pretendiamo questo riconoscimento di libertà e civiltà anche dalle culture e le persone più diverse da noi, sappiamo che alcune di queste ne sono tuttora più lontane: e non pensiamo che cercare rogne sia sempre il modo più furbo per ottenerlo.
Troviamo più inaccettabile e assurdo che un cattolico milanese si irriti del cavallo di Cattelan che non che si offenda un musulmano sudafricano della vignetta su Maometto: sì. È come avere a che fare a quattr’occhi con vostro fratello o con uno sconosciuto in India per mail, rispetto a qualunque critica o problema. Non si usano gli stessi pesi e le stesse misure e le stesse parole.
È una spiegazione, non una giustificazione: riteniamo la questione aperta e in evoluzione nelle nostre teste. Perché da qui al relativismo culturale, il passo è brevissimo.