Baroni in pensione a 65 anni: a Londra si fa già
Marco Simoni spiega che alla London School of Economics i professori vanno in pensione a 65 anni, ed è meglio anche per loro
Il progetto articolato in un documento del Partito Democratico presentato all’assemblea di questi giorni che mira ad abbassare l’età del pensionamento dei professori universitari a 65 anni, ha incontrato finora molti consensi e due ordini di obiezioni. Il primo è che “non basti a risolvere i problemi dell’università”, e questa è un’obiezione che viene sistematicamente mossa dai critici di qualunque cosa, tanto che questo tipo di atteggiamento ha fatto coniare il termine di “benaltrismo”: “ben altri sarebbero i problemi da risolvere…” si dice, e intanto non se ne risolve mai nessuno.
Il secondo ordine di dubbi riguarda il rischio di allontanare dall’università persone che all’insegnamento, alla ricerca e alla cultura hanno ancora molto da dare, costringendole su un evocata poltrona di casa dimenticate dal mondo della scienza. Ma Marco Simoni, che insegna alla London School of Economics, spiega che lo scenario da immaginare è invece un altro, già attuale in Gran Bretagna.
Questa opinione si basa sulla mia esperienza all’università dove lavoro attualmente, la London School of Economics, dove esiste esattamente questa norma. Per essere precisi, qui quando si firma un contratto di lavoro di professore, per così dire a tempo indeterminato, si firma in realtà un contratto a termine, il cui termine è il compimento del tuo 65esimo compleanno.
Questo naturalmente non significa, come lasciano intendere in cattivissima fede alcuni interessati osteggiatori della proposta, che la tua “sapienza” e il tuo “contributo” andranno persi. Nel campo intellettuale, o almeno nei luoghi dedicati alla ricerca e all’insegnamento, è il valore di quel che dici e delle cose che hai da dire a determinare il rispetto nei tuoi confronti e anche la domanda nei tuoi confronti, indipendentemente dalla tua età.
Pertanto, anche se tecnicamente in pensione, un vero professore emerito di 65 anni, ossia uno che non possiede quel titolo per ragioni di potere baronale ma per ragioni di sostanza, avrà talmente tante richieste di conferenze, interventi scritti, commissioni pubbliche di riforma tal dei tali, opinioni, che la pensione sarà soprattutto un sollievo dalle incombenze burocratiche legate alla carriera accademica.
Non solo, spiega Simoni, la circolazione delle idee e delle esperienze può avvenire per canali e modalità che non sono esclusi dal pensionamento formale – che libera spazi ai più giovani insegnanti, crea nuovi stimoli e arricchisce il rinnovamento della ricerca – ma sottrae i professori di più lungo corso e carriera alle molte incombenze accademiche più improduttive, taciute in questi giorni.
Quelle incombenze, ad esempio la nomina di professori e ricecatori, l’assegnazione di fondi, la gestione degli esami e degli studenti, sono cose noiose e pesanti che cozzano con la vocazione alla ricerca, alla disseminazione di risultati, all’insegnamento. Un vero luminare, finalmente in pensione, certamente potrà continuare a insegnare il suo corso con un contratto di collaborazione annuale – che arrotonderà la pensione. Sarà la stessa università a chiederglielo e probabilmente a garantirgli un ufficio di appoggio all’università. Certamente continuerà come e più di prima a scrivere libri, stare in laboratorio, e in giro per l’Italia o il mondo per offrire la propria competenza e la propria sapienza. Tuttavia, oltre a essere sgravato da tutte le incombenze amministrative, non potrà nemmeno svolgere alcune funzioni di direzione accademica, quelle che vanno intraprese con la dovuta prospettiva davanti a sé, né seguire in solitudine (senza altri colleghi più giovani) studenti di dottorato la cui ricerca è più di tutte proiettata nel futuro. Niente senato accademico, niente incarichi ufficiali e formali, solo ricerca, contributo intelletuale, e vera libertà.
È a fronte dell’evidenza di queste considerazioni che Simoni conclude che evidentemente gli ostacoli alla condivisione di questo progetto debbano essere cercati altrove.
Al di fuori di un compensibile amore per il potere di chi lo detiene, non vedo alcuna controidicazione alla pensione obbligatoria a 65 anni per professori universitari.